Il verdetto delle urne che è arrivato da Veneto, Campania e Puglia è netto: Giorgia Meloni ha incassato la sua prima vera sconfitta politica dall'ascesa del 2022. Le reazioni ufficiali della premier, arrivate da Johannesburg, sono apparse prudenti, quasi burocratiche. Un giro di complimenti ai vincitori, un elogio al successo veneto e poco altro. Ma voltare pagina, questa volta, non sarà affatto semplice.

Veneto: vittoria annunciata, sconfitta interna
Il paradosso è che il colpo più duro per Fratelli d'Italia arriva proprio dal territorio che la destra controllava senza alcun margine d'incertezza: il Veneto. La vittoria del candidato Stefani era scontata, ma il vero confronto era tutto interno alla coalizione, tra FdI e una Lega galvanizzata dal sostegno del governatore Zaia.

Il responso non lascia spazio a interpretazioni: la Lega non solo ha superato FdI, ma l'ha doppiato nei consensi, 36% a 18%. Un risultato che rafforza la leadership regionale di Zaia e rianima un Carroccio che pareva incapace di rialzarsi. Salvini festeggia come non faceva da anni e, con l'entusiasmo alle stelle, lascia intendere che il risultato veneto potrebbe essere replicabile in Lombardia. Un messaggio diretto a Meloni.

Le ricadute saranno immediate: assessori regionali da ridiscutere, autonomia differenziata da rimettere al centro e—più avanti—la partita della Lombardia. Zaia punta a trasformare il dualismo interno alla coalizione in un modello tipo “Cdu-Csu”, con lui a guidare i “bavaresi” d'Italia. Per Meloni, una complicazione dietro l'altra.

Campania: la vera disfatta
Se il Veneto è un boccone amaro da mandar giù, non è certo da meno quello della Campania. Anche qui la sconfitta non è solo netta, è devastante. Non è bastato schierare un viceministro come Cirielli né tentare un condono edilizio in corsa: il centrodestra è stato travolto, 61,3% contro 35%. Meglio della Puglia, sì, ma solo sulla carta. In Puglia il centrodestra non aveva davvero investito; in Campania sì. Ed è questo che brucia.

La dimensione dello scarto ha un significato politico clamoroso: se replicato alle politiche, o anche solo ridotto a dieci punti, l'attuale maggioranza perderebbe ogni collegio maggioritario di quelle regioni, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del governo. A questo punto, per Meloni, cambiare la legge elettorale non è più una valutazione strategica: diventa una necessità.

La corsa al proporzionale
Non a caso Donzelli ha già aperto il dibattito: serve rivedere il sistema. Tradotto, per FdI: eliminare la quota maggioritaria che oggi li espone al tracollo nel Sud. Tajani, da sempre favorevole al proporzionale, non si oppone. Nel Pd, però, qualcuno si è svegliato: Taruffi difende lo status quo, consapevole che ora la legge attuale è più vantaggiosa dell'alternativa.

In realtà contatti informali tra FdI e Pd erano già in corso per un patto di convenienza su un nuovo sistema elettorale. Ma lo scenario è cambiato, e lo ha cambiato il voto di pugliesi e campani. Certo, la maggioranza potrebbe imporre comunque una riforma a colpi di fiducia, ma la Lega non ha alcuna intenzione di sacrificare i collegi dove sta tornando competitiva. Salvini farà pesare ogni punto percentuale recuperato.

Un pareggio che sa di sconfitta
La tornata regionale si chiude formalmente tre a tre, ma l'aritmetica non racconta la sostanza politica. Per la premier il bilancio è pesante: una Lega rinvigorita, un Sud ostile, una legge elettorale che rischia di diventare una trappola e un referendum di primavera che ora arriva con un vento sfavorevole.

La giornata nera di Meloni non è un incidente di percorso. È un avvertimento, chiaro e inequivocabile, sullo stato reale della coalizione e del consenso. E il tempo per correre ai ripari si fa improvvisamente più corto.