Anna Foa non ha mai avuto timore di dire l'ovvio quando tutti fingono di non vederlo. Intellettuale solida, storica rigorosa, voce ebraica critica e non addomesticata, ha costruito la sua reputazione precisamente sul non piegarsi all'uso strumentale della Shoah come scudo politico. È anche per questo che Il suicidio d'Israele - il suo ultimo libro -  ha ottenuto un successo così ampio: non è consolatorio, non è ambiguo, non è allineato. Dice ciò che la diaspora preferisce non guardare.

Perché parlarne? Perché insieme ad altri intellettuali ebrei  - tra cui Roberto Della Seta, Helena Janeczeck, Carlo Ginzburg, Lisa Ginzburg, Gad Lerner, Giovanni Levi, Stefano Levi Della Torre... - ha sottoscritto un documento per opporsi pubblicamente alla volontà da parte di alcuni parlamentari supportati dall'UCEI di licenziare delle nuove norme per condannare l'antisemitismo.

Questi alcuni passaggi...

"Queste iniziative legislative da un lato banalizzano l'antisemitismo; dall'altro, come si è visto anche nella recente offensiva del governo Trump contro le principali università americane, usano la lotta all'antisemitismo come strumento politico per limitare la libertà del dibattito pubblico, della ricerca e della critica legittima a Israele. Che da anni porta avanti politiche violente, autoritarie e perfino genocidiali contro i palestinesi. ...Stabilire un presunto privilegio di esenzione dalla critica politica ed etica ‘in favore degli ebrei' (e solo di questi) – che nei fatti tutela solo chi sostiene in modo incondizionato le ragioni di Israele – non può che alimentare nuova ostilità e ulteriore antisemitismo. Quest'ultimo certamente esiste ma va sempre contrastato accanto a islamofobia, razzismo e ogni forma di discriminazione. ... Gli scrittori denunciano il rischio dell'uso politico dell'antisemitismo, quello di repressione della libertà di opinione e parola, a cominciare dalla critica al governo israeliano, come avviene già negli Usa di Trump e in diversi Paesi europei e l'Italia dovrebbe evitare".

Il nuovo pacchetto di DDL che adottano la definizione IHRA di antisemitismo  - le proposte di legge sono quattro: Romeo (Lega), Scalfarotto (Italia Viva), Delrio e altri (Pd), Gasparri (Forza Italia) - si spinge oltre il limite. Qui non si parla di contrasto all'odio, ma di blindatura totale dello Stato d'Israele. La critica al governo, alla colonizzazione, alla violenza dei coloni, alla gestione militare dei territori, verrebbe automaticamente identificata come reato. Non opinione, ma offesa punibile.

Tradotto: Israele diventa l'unico Stato del pianeta che non può essere messo in discussione. Nemmeno Putin, nemmeno Trump, nemmeno i regimi militari. Solo Israele, protetto dietro un muro ideologico che traveste la difesa della memoria dell'polocausto in strumento di censura.

L'operazione è limpida e brutale: separare l'antisemitismo dal resto delle matrici d'odio. Elevare un'unica storia sopra tutte le storie. Non per proteggerla, ma per usarla. Così, il razzismo, il fascismo, la violenza etnica contro palestinesi o altri popoli, finiscono sullo sfondo. A contare è solo ciò che non si può dire su Israele.

Con che risultato? Quello di alimentare l'antisemitismo, visto che, come accade in casi analoghi, vi sarà un effetto boomerang. Inoltre, non bisogna neppure dimenticare il paradosso di tali iniziative. Infatti, mentre in Italia e altrove si tenta di silenziare qualunque voce critica, dentro Israele esiste un dissenso enorme, articolato, giovane, ostinato. Le piazze contro Netanyahu non sono fenomeni marginali, e il riferimento al genocidio non è un tabù interno: è parola ormai circolante, discussa, gridata, scritta.

Al contrario, gli ebrei della diaspora in Europa tacciono o fingono di non vedere: la paura di incrinare l'identità ebraica in loro prevale sulla necessità di salvarla.

Foa lo dice chiaramente in una intervista rilasciata all'Unità: l'errore è trasformare un fenomeno plurale in dogma unico. Il sionismo come credo indivisibile, puro, impermeabile a giudizio. Una narrazione comoda per chi governa e devastante per chi deve immaginare l'avvenire. Se tutto ciò che non aderisce alla linea ufficiale è antisemitismo, la discussione finisce. E con essa, la politica. E con essa, Israele.

L'idea che la caduta di Netanyahu possa “normalizzare” Israele è una favola utile per lavarsi la coscienza. Ben-Gvir e Smotrich non sono incidenti di percorso, ma sintomo sociale. La destra estremista non ha occupato il potere con un colpo di mano, ma con il consenso.

Cambiare non significa sostituire i ministri impresentabili con figure presentabili. Significa cambiare paradigma. Serve una rottura radicale: etica, culturale, politica. Altrimenti il suicidio continuerà, lento e silenzioso.

Il nodo più grave, quello che l'Europa non vuole affrontare, è la memoria. Se diventa privilegio identitario, se diventa arma, se diventa passe-partout per giustificare l'ingiustificabile, decade. La memoria sopravvive solo se si apre, se vale per tutti, se non diventa recinto.

"Mai più" non può essere sigillo tribale. Altrimenti si svuota, si corrompe, si piega. E finisce per rendere più fragile proprio ciò che pretende di proteggere.

Le leggi in discussione non proteggono la comunità ebraica, la espongono. Non difendono la memoria, la consumano. Non salvano Israele, ne accelerano il tracollo morale.

Foa non concede attenuanti: o si accetta che Israele possa e debba essere criticato come qualunque altro Stato, oppure si scivola nel paradosso totale. Uno Stato che usa la Shoah come scudo per apartheid e genocidio non sta difendendo la propria sopravvivenza, sta preparando la propria estinzione politica.

E con essa, trascina una diaspora che, tra vittimismo e silenzio, rischia il collasso culturale.

Dire mai più, oggi, significa tornare al significato originario: senza eccezioni, senza immunità, senza santificazioni di comodo. Non per demolire la memoria, ma per liberarla dal recinto in cui la si vuole imprigionare.