Sono settimane calde per il football italiano. Le trattative tra club, procuratori e calciatori si susseguono a ritmo incalzante: scambi, prestiti, acquisti milionari. Ma dietro le quinte di questa frenetica campagna acquisti, soprattutto tra Serie A, B e tornei minori, si muove qualcosa di ben più strutturale: l’economia del calcio. Una dinamica che, da anni ormai, ha contaminato ogni angolo del gioco, ma che oggi raggiunge nuovi picchi con un elemento spesso ignorato dai più: le scommesse sportive.
Non si tratta più solo di scegliere il vincitore di una partita. Oggi si scommette su ogni dettaglio del match – dal primo fallo laterale all’ultimo cartellino giallo – trasformando l’evento sportivo in un flusso continuo di microtransazioni. Un meccanismo che ha effetti diretti, tangibili, persino sulle borse. Quando una squadra è molto “giocata”, cioè oggetto di puntate frequenti e consistenti, la sua reputazione finanziaria tende a salire. Di riflesso, anche la sua quotazione azionaria cresce.
La revoca del divieto di pubblicità alle scommesse, attuata sotto traccia, è quindi tutt’altro che una scelta neutrale o secondaria. A dispetto della narrazione ufficiale, che la giustifica con un supposto ritorno economico da 100 milioni di euro da spartirsi tra i club (una cifra che in pratica vale poco più di un paio di riserve), la verità è che l’intero impianto serve a rafforzare un sistema dove l’equilibrio finanziario si basa anche – e in modo crescente – sulla dipendenza da un flusso continuo di scommesse.
Nel 2024 le puntate legate allo sport, online e fisiche, hanno toccato quota 25 miliardi di euro. Un dato che racconta più di qualsiasi comunicato ufficiale quanto il settore betting abbia colonizzato lo sport, soprattutto il calcio. Ma non è solo una questione di soldi.
C’è un punto che dovrebbe far riflettere – e molto – chi ha responsabilità politiche e istituzionali. Dal 23 settembre 2023, lo sport è entrato ufficialmente nella Costituzione italiana. Con la riforma dell’articolo 33, il Parlamento ha sancito che lo sport ha un valore educativo, morale e di coesione sociale. Un principio solenne, che obbliga chi governa a promuovere e proteggere questi valori.
Eppure, appena sei mesi dopo, la Commissione Cultura della Camera ha chiesto al governo di rimuovere proprio il divieto alla pubblicità delle scommesse. Una decisione in aperta contraddizione con la nuova norma costituzionale. Perché se lo sport è esperienza educativa e sociale, come può essere compatibile con il business dell’azzardo? Come si può giustificare che lo sport venga ridotto a pretesto per moltiplicare occasioni di scommessa?
La risposta, finora, è un silenzio assordante. Nelle cronache piene di gossip su trattative e scambi tra società, procuratori e intermediari, manca del tutto la riflessione su cosa voglia dire, davvero, avere lo sport tra i principi fondamentali della Repubblica.
Il problema non è solo tecnico o regolamentare. È culturale. È il capovolgimento di senso che preoccupa: da sport come momento di crescita collettiva a sport come piattaforma per il gioco d’azzardo. Un rovesciamento che non è solo incompatibile con la Costituzione: la tradisce.
E allora, mentre Juventus, Napoli, Inter e Atalanta movimentano centinaia di milioni in questo calciomercato estivo, sarebbe il caso che qualcuno ricordasse che lo sport, per come oggi è trattato, ha perso il senso originario. E che continuare a chiamarlo tale – mentre lo si piega alle logiche della scommessa e del profitto – è, semplicemente, una presa in giro.
Fonte: Avvenire


