Ci risiamo. Un nuovo “piano di pace” che non porta pace, ma un'altra riga sulla mappa — questa volta gialla, tracciata a colpi di bulldozer e cemento armato. Gaza, dopo mesi di macerie e sangue, rischia di finire spaccata in due: una zona “sicura” controllata da Israele e un'altra lasciata al controllo di Hamas. È la normalizzazione del disastro, la cristallizzazione dell'ingiustizia in nome della “stabilità”.
Dietro le dichiarazioni diplomatiche e i sorrisi ai summit, la verità è brutale: il piano di Donald Trump, riesumato e spinto dagli Stati Uniti con la complicità di governi europei inerti, è già fallito. I sei funzionari europei che parlano di “stallo” non dicono nulla di nuovo — lo stallo è la sola costante della politica mediorientale occidentale. Si discute di “ricostruzione”, ma solo per la parte sotto controllo israeliano. Tradotto: chi resta dall'altra parte del blocco giallo può arrangiarsi tra tende e detriti.
E mentre Washington predica “progressi significativi”, Gaza resta un cimitero a cielo aperto. Gli Stati Uniti preparano una risoluzione ONU per una “forza multinazionale”, ma nessuno vuole mandare i propri soldati a morire tra le rovine. Tutti dicono di volere la pace, ma nessuno è disposto a pagarne il prezzo politico. Israele non vuole la Palestina, Hamas non vuole disarmare, e l'Autorità Palestinese resta fuori dalla porta come un invitato scomodo.
La realtà è che questo “piano” serve solo a dare una parvenza di ordine a una situazione che l'Occidente non ha il coraggio di affrontare. Le “zone modello” di cui parlano gli emissari americani ricordano più dei ghetti ben recintati che delle oasi di rinascita. Si parla di “transizione” ma senza scadenze, senza responsabilità, senza visione. È la pace amministrata come una pratica burocratica: timbri, linee, e un'umanità intera ridotta a un problema di gestione.
Netanyahu proclama di non voler “rioccupare” Gaza, ma intanto costruisce una zona cuscinetto e piazza blocchi di cemento colorati per delimitare il “nuovo ordine”. È la stessa ipocrisia che da decenni mantiene viva la farsa dei “processi di pace”: Israele si dice difensivo, l'America si dice mediatrice, l'Europa si dice preoccupata — e intanto Gaza muore un po' di più... come il resto della Palestina.
Gli unici che non hanno voce in capitolo, come sempre, sono i palestinesi. Due milioni di persone ridotte a statistiche, intrappolate dal cinismo di chi pretende di salvarle con un piano scritto a Washington.
La “linea gialla” potrebbe presto diventare il nuovo confine de facto, sancendo la fine definitiva del sogno di uno Stato palestinese. E mentre i diplomatici continuano a “lavorare sulle idee”, le famiglie divise da quei blocchi di cemento si chiedono se potranno mai rivedersi, se potranno ricostruire una casa, una strada, una vita.
No, non è un piano di pace. È un esperimento geopolitico sulla pelle di un popolo senza diritti. E se il mondo accetterà questa nuova divisione come “temporanea”, allora Gaza non sarà più solo una ferita aperta: sarà la prova che la giustizia internazionale è morta, e che ormai l'umanità vale meno di una linea tracciata con la vernice gialla.
E tutto perché uno Stato canaglia come lo Stato ebraico di Israele è funzionale alle strategie geopolitiche degli Stati Uniti. Per normalizzare quanto sta accadendo in Medio Oriente sarebbe sufficiente che Israele venisse trattato come il Sudafrica dell'apartheid. Ma così non è.
Da vedere però se i Paesi del Golfo, Arabia in testa, accetteranno che Israele continui a rifiutarsi di riconoscere la Palestina. Non per una questione umanitaria, bensì per una questione economica. Infatti, gli enormi investimenti per promuovere il turismo come uno dei nuovi canali di entrate economiche in sostituzione dell'estrazione del greggio, destinata a morire, potrebbero finire per essere improduttivi in un'area geografica dove l'instabilità politica rischia di promuovere guerra e terrorismo. Non vuol dire che quei Paesi inizieranno una guerra contro lo Stato ebraico, ma potrebbero spingere gli USA a rivedere le sue posizioni. È questo di cui a Tel Aviv dovrebbero preoccuparsi.


