L’Italia continua a investire meno della media Ocse nella sanità pubblica, sia in rapporto al Pil sia in termini di spesa pro capite corretta per il potere d’acquisto. Questo sottofinanziamento, però, non si traduce in un risparmio per i cittadini: al contrario, le famiglie italiane finiscono per coprire di tasca propria una quota più alta rispetto alla maggior parte dei paesi Ocse.
È quanto emerge dal rapporto Health at a Glance: Europe 2025, che mette in luce una realtà poco confortante: mentre nei paesi Ocse la spesa sanitaria delle famiglie incide in media per il 3,2% sui consumi, in Italia si sale al 3,5%. Un livello simile alla Spagna, ma decisamente superiore a quello di economie come Germania (2,5%) e Francia (2%).
Dove spendono le famiglie italiane
A livello internazionale, la voce principale della spesa sanitaria privata è rappresentata da farmaci e dispositivi medici, che pesano in media per il 41% della spesa out of pocket. In paesi come Messico, Slovacchia e Polonia questa quota supera addirittura il 60%.
In Italia la situazione è diversa. Non sono i farmaci il problema principale, ma l’assistenza ambulatoriale: visite specialistiche, accertamenti diagnostici e altre prestazioni non ospedaliere. Mentre nel resto dell’Ocse questo tipo di prestazioni pesa in media per il 22% sulla spesa delle famiglie, da noi arriva al 48%, secondo valore più alto dopo il Portogallo (52%). Un dato che riflette chiaramente le difficoltà di accesso al sistema pubblico e i tempi di attesa sempre più lunghi.
Il nodo della “spesa sanitaria catastrofica”
Il rapporto analizza anche la quota di famiglie costrette a sostenere spese sanitarie talmente elevate da risultare insostenibili: la cosiddetta spesa sanitaria catastrofica.
Qui le differenze tra i paesi sono marcate. In Svezia, Slovenia, Regno Unito, Irlanda e Paesi Bassi riguardano meno del 2% delle famiglie. All’estremo opposto, in Lituania, Lettonia e Ungheria superano il 10%.
L’Italia non si colloca affatto bene: l’8,6% delle famiglie affronta costi sanitari eccessivi rispetto al proprio reddito. Un valore che ci piazza al nono posto peggiore dell’area Ocse, su livelli simili a diversi paesi dell’Europa orientale, non certo al fianco delle economie più solide e inclusive.


