C’è un tratto comune che attraversa la politica economica dei governi italiani: la capacità di guardare all’Europa solo quando conviene. L’innalzamento del limite all’uso del contante a 10mila euro – con tanto di tassa fissa da 500 euro per le transazioni tra 5.001 e 10mila, trasformando di fatto il contante in un servizio premium – è solo l’ultimo esempio di una “Europa a geometria variabile” che viene tirata in ballo come alibi o come scudo, a seconda delle necessità politiche del momento.

Il governo rivendica che l’Unione Europea dal 2027 fisserà la soglia a 10mila euro, che dunque adeguarsi sarebbe un atto di sano realismo, che ciò non significa che chi usa contanti compie automaticamente qualcosa di illecito, e che una maggiore libertà di movimento del contante non rappresenta un vantaggio per chi vuole eludere controlli.
L’opposizione denuncia, invece, un favore indiretto all’evasione fiscale, mascherato da armonizzazione normativa.

Fin qui, la solita dialettica. Ma il punto è un altro: perché l’Europa serve come parametro per i contanti, ma non per i salari?

Perché è accettabile un “tetto contabile” allineato agli standard Ue, mentre restano ben più bassi – e da anni – gli stipendi medi italiani rispetto a quelli dei partner europei? Perché quando si parla di strumenti che alimentano e facilitano l’economia sommersa – come pagamenti non tracciati o transazioni difficili da monitorare – si guarda a Bruxelles come alla bussola imprescindibile, mentre quando il tema è il potere d’acquisto di milioni di lavoratori si preferisce lo sguardo corto, quello di chi trova sempre una giustificazione per rinviare?

La verità è che da tempo l’Italia vive una contraddizione strutturale: pretende di essere europea nei limiti, ma resta profondamente provinciale nei diritti. Adeguare la soglia dei contanti è un gesto semplice, quasi indolore, che non richiede riforme profonde. Adeguare gli stipendi, invece, significa toccare nodi antichi: produttività stagnante, contrattazione frammentata, carichi fiscali sbilanciati, una politica industriale che procede a singhiozzo. E allora si rimanda, si attende, si accetta che i salari reali continuino a scivolare verso il basso, mentre i prezzi salgono e l’inflazione divora pezzi di vita quotidiana.

L’innalzamento del tetto al contante, con la sua tassa accessoria, si presenta così come una scelta che guarda più alle libertà di chi ha grandi somme da muovere che alle necessità di chi quelle somme non le vedrà mai.

Un Paese che ha gli stipendi più bassi d’Europa non può permettersi di usare l’Europa solo come grimaldello quando serve spingere un provvedimento contestato, ignorandola quando sarebbe necessario investire nella dignità dei lavoratori.

L’armonizzazione europea non può essere un menu à la carte. O si decide davvero di “essere Europa” – nei diritti, nelle tutele, nei salari, nelle pensioni – oppure si sta solo scegliendo, di volta in volta, ciò che conviene politicamente nel breve periodo, rinunciando a costruire una strategia per il lungo termine.

Perché se è vero che i contanti scorrono più liberi, è altrettanto vero che le buste paga restano drammaticamente leggere.