Nel dibattito pubblico italiano, il tema dei salari è tornato prepotentemente al centro dell’agenda politica. La combinazione di stipendi stagnanti, inflazione persistente e un costo della vita che cresce più rapidamente dei redditi ha riacceso il dibattito su contratti, politiche industriali e strumenti di tutela sociale. Per analizzare le dinamiche in corso e valutare possibili strategie di intervento, abbiamo incontrato il Dr. Gregorio Scribano, opinionista politico ed esperto di comunicazione, noto per la capacità di leggere con lucidità i fenomeni sociali ed economici che coinvolgono milioni di lavoratori italiani.
 
Dottor Scribano, partiamo dal quadro generale. Gli stipendi italiani restano tra i più bassi d’Europa e il potere d’acquisto dei lavoratori si è progressivamente eroso negli ultimi vent’anni. Quali misure considera prioritarie per invertire la rotta?

«Il punto di partenza è restituire centralità al lavoro dipendente, recuperando ciò che negli anni è stato eroso. La prima misura da adottare è un rafforzamento effettivo della contrattazione collettiva: i minimi salariali stabiliti dai contratti nazionali devono diventare realmente vincolanti. Oggi assistiamo alla proliferazione di contratti pirata che comprimono i salari e creano concorrenza sleale; è un fenomeno che va superato con una normativa chiara e un perimetro contrattuale certo.

Parallelamente, è necessario introdurre un salario minimo legale, concepito non come alternativa ai contratti collettivi, ma come una soglia invalicabile di tutela. Un minimo che deve servire a riallineare l’Italia agli standard europei, evitando però l’errore di usarlo come strumento per appiattire verso il basso retribuzioni già troppo basse.

C’è poi il tema degli aumenti salariali. Gli scatti di anzianità e i rinnovi dei CCNL devono tornare a essere tempestivi e sostanziali: non possono arrivare con ritardi strutturali né limitarsi a recuperi parziali dell’inflazione. E, se la spirale inflattiva dovesse continuare a erodere i redditi, non escludo la possibilità di riconsiderare strumenti come la 'scala mobile', che garantiva un adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita. Quando la situazione lo impone, servono strumenti forti: a mali estremi, estremi rimedi.»

Molti sostengono che senza una crescita reale delle imprese sia difficile immaginare aumenti salariali significativi. Quali politiche industriali ritiene più efficaci?

«La crescita dei salari non può prescindere da una strategia industriale chiara e coerente: serve un piano concreto, condiviso e attuabile, che indirizzi le risorse verso settori ad alto valore aggiunto. Solo investendo in comparti capaci di generare occupazione qualificata, e non lavoro precario a basso costo, si può costruire una base solida per aumenti retributivi sostenibili.

Il Paese deve abbandonare la logica del 'tutto low cost' e tornare a puntare su qualità, innovazione, tecnologia, sostenibilità e, in maniera prioritaria, sulla transizione energetica. La centralità di formazione, ricerca e digitalizzazione è cruciale: senza investire nello sviluppo delle competenze dei giovani, rischiamo di perdere capitale umano prezioso e, con esso, il potenziale necessario per sostenere una crescita salariale reale.»

Passiamo alla fiscalità. Quali incentivi possono sostenere concretamente un aumento delle retribuzioni?

«Gli incentivi fiscali sono uno strumento molto potente, purché utilizzati con criterio. In primo luogo, vanno premiate le imprese che investono in ricerca, sviluppo e formazione, perché un’azienda che cresce è un’azienda che può remunerare meglio i propri lavoratori. In secondo luogo, ritengo necessario introdurre meccanismi premianti per chi riduce il divario salariale interno: non è accettabile che gli stipendi dei top manager siano cento volte superiori a quelli dei dipendenti, una sproporzione che si traduce anche in minore produttività. Infine, occorre favorire le assunzioni stabili con sgravi contributivi mirati, ma progressivi: più un’azienda riconosce salari elevati, maggiori devono essere i benefici fiscali. È la strada più efficace per contrastare la logica del “ti assumo, ma al minimo possibile”.»

E i lavoratori? In che modo possono contribuire attivamente in un contesto tanto complesso?

«Il loro ruolo è centrale. Non possiamo delegare tutto alla politica o alle organizzazioni sindacali. I lavoratori devono acquisire capacità negoziali più solide, non in un’ottica conflittuale, ma professionale: presentando dati, evidenze, risultati raggiunti. È anche fondamentale monitorare l’andamento economico dell’azienda: se un’impresa cresce ma i salari rimangono fermi, è evidente che qualcosa non funziona. Le richieste devono essere motivate, realistiche e basate sul valore prodotto e sull’inflazione reale.»

Un’ultima questione riguarda la previdenza: pensioni troppo basse e spesso insufficienti a garantire un tenore di vita dignitoso. Qual è la sua analisi?

«Si tratta di una criticità che non può più essere ignorata. Con salari così bassi, anche i contributi versati all’Inps si riducono drasticamente e, nel sistema contributivo puro, ciò significa pensioni finali molto più basse dell’ultimo salario percepito. È un meccanismo che penalizza soprattutto chi da anni vive con retribuzioni stagnanti. Inoltre, diventa impossibile costruirsi una pensione integrativa: se lo stipendio basta appena per coprire le spese essenziali, risparmiare è irrealistico. Per questo l’aumento delle retribuzioni non è solo un tema di equità durante la vita lavorativa, ma una necessità previdenziale imprescindibile per garantire una vecchiaia dignitosa a chi oggi viene costretto a lavorare fino ai 70 anni.»

In conclusione, vede uno spiraglio di cambiamento?

«Sì, purché si comprenda che la battaglia per salari e pensioni è una battaglia di civiltà, che riguarda la dignità del Paese. Non è una questione ideologica né populista. Se il lavoro non è adeguatamente retribuito, l’intero sistema si indebolisce: dai consumi alla produttività, dalla natalità all’innovazione, fino alla tenuta sociale. L’Italia può rialzarsi, ma deve farlo ripartendo da retribuzioni e pensioni. Per riuscirci servono coraggio politico, responsabilità imprenditoriale e una nuova consapevolezza dei lavoratori.»