La plenaria di questa settimana ha messo in chiaro una verità che ormai era nell'aria: la vecchia alleanza centrista che ha dominato l'Unione Europea per decenni non è più un pilastro intoccabile. Il baricentro politico si è spostato e il Partito Popolare Europeo, storica forza dominante dell'emiciclo, oggi si trova davanti a un bivio che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile.
Il Ppe e la tentazione dell'estrema destra
Il Ppe non ne fa mistero: l'obiettivo è portare a casa risultati concreti per le imprese europee, anche a costo di cercare voti dove prima nessuno avrebbe osato. La prova sta nella battaglia sull'Omnibus I, il pacchetto che punta a snellire la rendicontazione di sostenibilità e ad allentare i requisiti di due diligence. Un'agenda chiaramente pro-business, che restringe le regole alle sole grandi imprese ed elimina sanzioni fino al 5% del fatturato per i trasgressori.
L'accordo iniziale con Socialisti (S&D) e liberali (Renew) è esploso: per una parte dei progressisti il pacchetto sapeva troppo di retromarcia ambientale e sociale. Saltato il centro, il Ppe ha virato senza esitazioni verso destra. E lì ha trovato terreno fertile: Conservatori e Riformisti Europei (Ecr), Patrioti per l'Europa (PfE) ed Europa delle Nazioni Sovrane (Ens) hanno sostenuto senza problemi una versione più morbida delle regole.
Il relatore Jörgen Warborn lo ha detto chiaramente: i voti della destra servivano, e il Ppe li ha presi. Tutto coerente con la strategia di Manfred Weber: niente alleanze strutturate con l'estrema destra, ma nessuna esclusione nel momento in cui quei voti fanno comodo. Una linea che i progressisti giudicano ambigua, ma che il Ppe vede come pura realpolitik.
La “piattaforma” centrista che non ha mai davvero funzionato
Nella scorsa legislatura, popolari, socialisti e liberali avevano stretto un accordo informale per garantire stabilità, soprattutto per far partire la nuova Commissione. In teoria quella piattaforma avrebbe dovuto rappresentare la maggioranza di governo. In pratica, non lo è mai stata.
Il Parlamento europeo non funziona come i parlamenti nazionali: non c'è un esecutivo che può cadere da un giorno all'altro. Per sfiduciare la Commissione serve una maggioranza dei due terzi, una soglia quasi impossibile da raggiungere. Questo rende molto meno rigido il gioco delle alleanze – e molto più facile per il Ppe cambiare partner a seconda del dossier.
Con una destra più numerosa e organizzata che mai, il Ppe oggi ha a disposizione una maggioranza alternativa ogni volta che i progressisti non sono disposti a cedere.
Dalla “maggioranza venezuelana” alle battaglie ambientali
Il segnale d'allarme è arrivato nel 2024, con la risoluzione che riconosceva Edmundo González come presidente del Venezuela. Non era un voto vincolante, ma ha creato un precedente. Da allora, la stessa combinazione Ppe–Ecr–PfE–Ens si è ripresentata più volte: sulla legge contro la deforestazione, annacquata con emendamenti più permissivi; sul Premio Sacharov; sulle ong; sulla trasparenza. Tanto frequente da spingere l'ong The Good Lobby a creare un tracker dedicato.
Questo non significa che il Ppe abbia abbandonato il centro: sui dossier cruciali continua a votare con S&D e Renew, difendendo la Commissione e collaborando anche con i Verdi su capitoli come il bilancio Ue. Ma il pattern è evidente: quando serve, la destra estrema diventa il piano B.
Green Deal, auto nel 2035 e migrazione: i dossier che rischiano di far esplodere tutto
Le tensioni aumenteranno. La revisione del Green Deal, ora rallentato da pacchetti di “semplificazione”, sarà un terreno di scontro permanente. Il divieto alle auto a combustione dal 2035 è già una miccia accesa.
La migrazione non aiuta. Le nuove proposte della Commissione sono allineate alla linea dura del Ppe, ma non piacciono a molti liberali né a una fetta consistente dei socialisti. Per far passare norme come la direttiva rimpatri o la definizione di “Paese terzo sicuro”, i voti della destra saranno quasi obbligatori.
Von der Leyen in trappola
Tutto questo rappresenta un serio problema per Ursula von der Leyen. Ha costruito la sua leadership sul filo dell'equilibrio centrista, promettendo collaborazione solo con partiti pro-europei e pro-Stato di diritto. Oggi quella maggioranza è fragile e frastagliata, mentre l'emiciclo è più polarizzato che mai.
La presidente cerca di tenere dentro i progressisti con "impalpabili" iniziative su Israele, diritti umani e crisi abitativa, ma allo stesso tempo deve tenere conto della pressione di governi come quelli di Merz, Meloni e Tusk, che la spingono a correggere la rotta, soprattutto sul Green Deal.
Il risultato è una linea politica ibrida, che a volte guarda a sinistra e a volte inseguе la destra. Un equilibrio che non potrà reggere all'infinito.
Una legislatura già segnata dal conflitto
La verità è semplice: il centro non ha più la forza per imporre una direzione chiara. La destra è troppo grande per essere ignorata e troppo utile per essere esclusa. Il Ppe lo ha capito per primo e sta sfruttando la situazione senza farsi scrupoli.
Von der Leyen, invece, è stretta tra le aspettative dei progressisti e il vento politico che soffia sempre più decisamente verso destra. Per far passare le sue proposte dovrà scegliere, dossier per dossier, con chi vuole realmente governare l'Europa.
E questo Parlamento non ha più automatismi. Ogni votazione è un campo minato.


