Per rispettare l'obiettivo imposto da Donald Trump di portare le spese militari italiane al 5% del PIL entro il 2035, il governo italiano ha riesumato un vecchio sogno mai realizzato: il ponte sullo Stretto di Messina. Con un costo stimato di 13,5 miliardi di euro, l'opera è stata ridefinita come progetto di "sicurezza strategica", così da rientrare nel 1,5% del budget NATO destinato ad infrastrutture a "valore duale". Una soluzione audace, che permette di conciliare la fedeltà all'alleanza atlantica con i vincoli dei conti pubblici.

La logica del governo Meloni è chiara nella sua spudoratezza: il ponte non sarebbe solo un'opera civile, ma un'infrastruttura chiave per la logistica militare nel Mediterraneo, regione centrale nelle tensioni globali. In caso di emergenza, consentirebbe lo spostamento rapido di truppe e mezzi verso la Sicilia, avamposto strategico verso Medio Oriente e Nord Africa. Il concessionario incaricato della costruzione ha sostenuto che il ponte è progettato per reggere il passaggio di carri armati senza necessità di adattamenti, rafforzando la narrazione di utilità militare.

Le opposizioni, tuttavia, non ci stanno. Giuseppe Antoci (M5S) parla di "presa in giro per cittadini e alleati", mentre Angelo Bonelli (Avs) definisce l'idea "una follia". Più di 600 accademici hanno firmato una lettera a Meloni, sottolineando che il ponte "non è mai stato concepito come progetto militare" e ricordando che le ferrovie del Sud non sono attrezzate per il trasporto di armamenti pesanti.

Il nodo non è solo politico, ma anche finanziario. Per raggiungere il 3,5% di spesa militare "pura", l'Italia dovrebbe investire circa 700 miliardi in dieci anni: un obiettivo difficilmente sostenibile per un Paese già sotto pressione sui conti pubblici. La distinzione tra il 3,5% e il restante 1,5% offre al governo margini di "contabilità creativa", anche se il think tank tedesco Bertelsmann Stiftung ha lanciato l'allarme: flessibilità e escamotage rischiano di minare la credibilità della NATO.

Il ponte sullo Stretto non è nuovo a questa trasformazione geopolitica. Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, lo ha definito "strategico per la difesa europea e della NATO". Dopo decenni di promesse, l'opera resta però avvolta da dubbi su costi, impatto ambientale e rischio di infiltrazioni mafiose.

La vera partita resta la capacità dell'Italia di coprire la quota di spesa militare "dura", definita dal ministro Crosetto "impossibile da raggiungere adesso". Il ponte diventa così un espediente politico per guadagnare tempo, descritto come tassello concreto della difesa nazionale.

In questo scenario, la premier Meloni si conferma un ponte vivente tra Bruxelles e Washington: accontenta sulla carta Trump sulla spesa NATO, mentre rassicura i tecnocrati europei sul bilancio, evitando strappi eccessivi. Il ponte sullo Stretto, mai costruito in decenni di promesse, diventa così simbolo di un compromesso tra aspirazioni di autarchia europea e realtà della dipendenza dagli Stati Uniti.