Non c'è filo spinato, muro o checkpoint che possa fermare la fame di libertà di un popolo occupato. Lunedì, a Ramallah, le strade hanno tremato: non per un'esplosione, ma per l'urlo collettivo di un popolo che rivedeva i propri figli dopo decenni di prigionia. Decine di uomini, scheletrici, con il volto scavato e i segni ancora freschi delle percosse, sono scesi dai bus israeliani. Lì, davanti a loro, le madri, i fratelli, le mogli — un popolo intero che non aveva mai smesso di aspettare.
Ottantotto ostaggi palestinesi sono stati liberati in Cisgiordania occupata. Altri duemila, quasi tutti sequestrati da Gaza durante la guerra e mai accusati formalmente, sono stati rimandati nella Striscia, alcuni condannati all'esilio. Tutto ciò poche ore dopo che gli ultimi prigionieri israeliani erano stati restituiti. Così Israele chiama la “pace”: uno scambio calcolato, una tregua che sa più di gestione dell'immagine che di giustizia.
Ma a Ramallah, in questo pomeriggio di lacrime e canti, le famiglie non parlavano di geopolitica. Parlavano di sopravvissuti. Di uomini che, dopo vent'anni di cella, tornano a casa come fantasmi. "Sembra un cadavere, ma lo faremo risuscitare", ha detto un parente di Saber Masalma, arrestato nel 2002 e condannato all'ergastolo. L'hanno portato a mangiare, ma piano: lo stomaco non è più abituato al cibo. È questo che fa l'occupazione — toglie tutto, anche la possibilità di nutrirsi.
Le testimonianze raccontano un inferno sistematico: torture, denutrizione, malattie ignorate. Secondo l'organizzazione israeliana B'Tselem, i palestinesi sono trattati "in modo disumano deliberatamente". Nessuna eccezione. Nessuna giustificazione. Israele dice di rispettare il diritto internazionale, ma lo calpesta ogni giorno: Fino a poche ore fa erano oltre 3.500 i palestinesi in detenzione amministrativa: ostaggi palestinesi incarcerati in prigioni militari senza prove.
E nel giorno della liberazione, i militari dello Stato canaglia di Israele hanno vietato alle famiglie palestinesi di gioire. L'esercito israeliano ha lanciato gas lacrimogeni contro i familiari che attendevano fuori dalla prigione di Ofer. Un volantino militare avvertiva: "Vi stiamo sorvegliando ovunque. Se celebrate, sarete arrestati.
Nemmeno la libertà può essere celebrata, se è palestinese. Questo è quello che fanno i nazisti ebrei.
Molti parenti hanno raccontato di essere stati minacciati nelle ore precedenti: "Non alzate bandiere, non gridate, non parlate". È così che si tenta di spegnere un popolo: censurando persino le lacrime. Ma in ogni volto che ha gridato quel giorno, c'era una verità più forte del divieto: la libertà non si negozia.
Eppure, tra gli abbracci, c'era anche il dolore. Famiglie che avevano preparato la casa per accogliere il proprio caro, e che hanno scoperto all'ultimo momento che sarebbe stato liberato a Gaza. "Perché lo deportano? Dove lo porteranno?", gridava una donna mentre la polizia la trascinava via. Nessuno risponde. Le vite palestinesi, per Israele, sono sempre cose, numeri su un foglio.
Anche nei giorni precedenti alla liberazione, i prigionieri erano stati picchiati. Le loro ossa fragili, i corpi ridotti dalla fame, parlano più di qualsiasi rapporto ONU. "“Sono stati deliberatamente affamati, privati di cure e picchiati", denuncia Aya Shreiteh del Palestinian Prisoners Club. Ma poi aggiunge: "Eppure oggi abbiamo speranza. Perché la libertà è inevitabile".
Ha ragione. La libertà palestinese non sarà concessa da chi costruisce muri e campi di detenzione: sarà strappata, centimetro dopo centimetro, da chi continua a resistere. I prigionieri liberati non sono eroi romantici: sono la prova vivente che il popolo palestinese, nonostante tutto, è ancora in piedi.
Oggi Ramallah canta, nonostante i gas e le minacce. Canta per chi è tornato, e per chi non tornerà. Canta per ricordare al mondo che non c'è pace possibile finché un popolo intero vive prigioniero.


