Mentre il Consiglio di amministrazione della società Stretto di Messina dà il via libera agli ultimi documenti necessari per sbloccare definitivamente il progetto del Ponte, si riaccende una delle polemiche più grottesche del panorama infrastrutturale italiano: il Ponte sullo Stretto è diventato un totem ideologico, un feticcio da difendere o attaccare a prescindere dalla sua utilità e fattibilità.
Fortemente voluto dalla destra di governo e in particolare dal vicepremier e ministro dei Trasporti Matteo Salvini, il Ponte rappresenta per molti una grande opera simbolo, in grado di rilanciare il Sud e di unire finalmente la Sicilia al continente con una connessione stabile. Un’infrastruttura che – se portata a termine – sarebbe la più lunga campata sospesa al mondo, un'opera ingegneristica di portata epocale. Non a caso, il mercato ha reagito con entusiasmo: Webuild, principale soggetto costruttore, ha chiuso la giornata con un +5,3% in Borsa. Segno che chi investe crede nella fattibilità e, soprattutto, nella redditività dell’opera.
Eppure, a fronte di questo fermento, continuano ad alzarsi barricate da parte di un fronte trasversale di oppositori. Dalla sinistra ideologica ai comitati ambientalisti, dai No Tav ai paladini dell’immobilismo strategico, si alza il solito coro: “inutile, dannoso, invasivo, costoso” - "prima la sanità e la scuola" - "ci sono altre priorità". Slogan triti e ritriti, pronunciati spesso con uno smartphone di ultima generazione in mano – figlio di filiere estrattive tutt’altro che green – e con il sedere sul Frecciarossa che attraversa mezza Italia grazie a infrastrutture altrettanto imponenti e contestate all’epoca.
Parliamoci chiaro: le ragioni dell’opposizione, in parte, sono legittime. Ogni grande opera comporta un impatto ambientale e sociale, e richiede attenzione massima su appalti, espropri, legalità e sostenibilità. Ma in Italia, più che altrove, il dibattito si arena sempre sul "no a prescindere". Non esiste una valutazione costi-benefici che tenga, non basta che l’intero investimento sia coperto dalla Legge di Bilancio e da fondi già stanziati. Non conta che ci siano migliaia di posti di lavoro potenziali, bonifiche, studi archeologici e indagini tecniche. Non importa se il Ponte, una volta costruito, collegherà milioni di persone ogni anno, aprendo la Sicilia e il Mezzogiorno a nuove dinamiche logistiche, economiche e turistiche.
Si preferisce il mantra dello status quo. Anzi, si difende l’immobilità come fosse una virtù, dimenticando che proprio l’assenza di collegamenti efficienti ha condannato intere aree del Sud a decenni di isolamento e marginalità.
Il Ponte sullo Stretto non è una bacchetta magica. Non risolverà da solo i problemi della Sicilia né quelli della Calabria. Ma può essere un catalizzatore. Come lo furono l’Autostrada del Sole, l’Alta Velocità o il Traforo del Monte Bianco. La differenza è che allora si aveva il coraggio di guardare avanti, oggi ci si rifugia nella comfort zone del sospetto e del veto.
L’annuncio che il Cipess potrebbe dare il via definitivo entro la fine dell’estate è un segnale importante. L’Italia ha bisogno di visione, non solo di gestione. E ha bisogno, soprattutto, di smascherare l’ipocrisia di chi predica sostenibilità e progresso, ma poi dice no a qualsiasi opera che implichi un cantiere.
Perché c’è una grande contraddizione in chi si oppone al Ponte con in mano un cappuccino Starbucks, in videochiamata su un iPhone, e pronto a prendere il treno per una riunione “green” a Milano. La mobilità sostenibile e l’equità territoriale non si fanno con gli hashtag, ma con le opere. Anche se sono complesse, costose e lunghe da realizzare.
Il ponte è più di un’infrastruttura. È uno spartiacque tra chi vuole costruire il futuro – letteralmente – e chi continua a vivere in un eterno presente fatto di slogan, nostalgia e comodità.


