Negli ultimi mesi, le cronache italiane hanno continuato a riportare episodi di violenza che hanno scosso l’opinione pubblica: dai femminicidi – una drammatica costante – ai casi di violenza giovanile e di gruppo, spesso amplificati dai social network. Vicende che hanno riportato al centro dell’agenda politica il tema della sicurezza, intesa non solo come ordine pubblico, ma anche come urgente questione educativa e di salute mentale. Ma cosa serve davvero per ridurre la violenza in un contesto di rapidi cambiamenti sociali? Ne abbiamo parlato con il dottor Gregorio Scribano, opinionista politico ed esperto di problematiche sociali, attento osservatore delle trasformazioni culturali del Paese.
Dottor Scribano, la percezione di insicurezza è solo paura o riflette un disagio reale?
«Non è solo paura. Continuiamo ad assistere a episodi gravi che evidenziano una frattura profonda nel tessuto sociale. Il persistere dei femminicidi – ben oltre le cento vittime all'anno – non è più soltanto una statistica, ma l’indicatore di un fallimento culturale e di carenze nella prevenzione, nell’educazione al consenso e al rispetto. Parallelamente, l’aumento della violenza di strada e minorile – spesso organizzata in chat o diffusa attraverso reel – mostra quanto siano fragili oggi i percorsi di crescita e di costruzione dell’affettività. È un quadro complesso, che richiede risposte organiche e non misure spot.»
La politica sembra intrappolata tra chi invoca il “pugno duro” e chi richiama la tutela dei diritti. Perché non si riesce a costruire una strategia comune?
«Perché la sicurezza è ancora trattata come un terreno di scontro ideologico. Da un lato si propongono misure emergenziali come l’inasprimento delle pene o l’aumento della presenza militare; dall’altro, ci si concentra esclusivamente sull’inclusione. Manca una visione sistemica. Non basta annunciare nuovi posti in carcere se non si interviene sui tempi della giustizia e sulla programmazione penitenziaria in chiave riabilitativa. Lo stesso vale per l’immigrazione: la sicurezza richiede investimenti concreti, non slogan su rimpatri o hotspot potenziati. In definitiva, come insegna la saggezza latina, in medio stat virtus.»
Quanto pesano le carceri nell’equilibrio complessivo della sicurezza nazionale?
«Moltissimo. Il sovraffollamento carcerario è un’emergenza costante, con strutture che in alcuni casi superano il 200% della capienza. In queste condizioni, la riabilitazione è impossibile e le tensioni sfociano in un aumento drammatico dei suicidi tra i detenuti. Non basta quindi costruire nuove strutture: occorre ripensare l’intero sistema. Servono più investimenti nella formazione degli agenti, programmi di trattamento efficaci e percorsi alternativi per i reati meno gravi. Continuare a gestire il carcere in questo modo significa alimentare recidiva e rancore sociale.»
Sul fronte della prevenzione, da dove si dovrebbe partire?
«Dalla famiglia e dalla scuola, senza esitazioni. La vera prevenzione è educativa: bisogna ricostruire un “alfabeto emotivo” che aiuti i giovani a gestire i conflitti e a comprendere il valore della non violenza. In questa fase storica è cruciale anche il ruolo dei media: devono smettere di spettacolarizzare la violenza e interrompere narrazioni che favoriscono l’emulazione. Inoltre, le periferie non vanno abbandonate: servono spazi di comunità, centri culturali e impianti sportivi. Dove vengono create opportunità, la devianza arretra.»
Passando al fronte opposto della prevenzione, quello della repressione, come si può renderla più efficace, superando la logica del solo “pugno duro” e garantendo la certezza della pena?
«La repressione non può essere isolata né trasformarsi in vendetta sociale: deve inserirsi in un sistema di sicurezza che la renda una deterrenza credibile. Il principale fallimento repressivo non è la mancanza di leggi severe, ma la lentezza e l’incertezza della loro applicazione.
Entrando nel merito, i nodi critici sono due: certezza e rapidità della pena. Indagini e processi devono essere più veloci. Quando passano anni tra il reato e la sentenza definitiva, la deterrenza svanisce e il cittadino perde fiducia nello Stato. Servono investimenti strutturali nel personale giudiziario e nell’informatizzazione dei tribunali.
Occorre poi rafforzare il presidio del territorio e migliorare la qualità dell’intervento: la presenza visibile delle Forze dell’Ordine è essenziale, così come lo è liberarli da compiti burocratici. Il “pugno duro”, però, non basta: servono operatori formati nella gestione dei conflitti, nel riconoscimento del disagio psichiatrico o minorile e nell’applicazione di protocolli che combinino fermezza e umanità.
Infine, l’innovazione tecnologica deve essere intelligente: la videosorveglianza e i sistemi predittivi – come gli algoritmi di polizia predittiva – possono aiutare a indirizzare le pattuglie nelle aree a rischio, ma devono essere utilizzati con attenzione per evitare discriminazioni o profilazioni indebite.
In sintesi, la repressione funziona solo quando è rapida, certa e mirata, integrata in un sistema che ha già attivato il “cervello” della prevenzione e dell’inclusione. Altrimenti, rischia di riempire carceri che generano nuova criminalità.»
I dati sulla violenza minorile continuano a crescere. Quali sono i segnali di allarme?
«I segnali sono molto preoccupanti. I dati più recenti confermano un aumento significativo di minori coinvolti in reati gravi. Ciò indica un cedimento profondo nei luoghi dell’educazione e nei servizi di intercettazione del disagio. Dietro molte violenze apparentemente “senza motivo” troviamo uso di sostanze, disturbi psichiatrici in esordio e disagi socio-familiari. È un’emergenza che riguarda contemporaneamente la scuola, la sanità e i servizi sociali, aggravata dall’aumento dell’abbandono scolastico e dal vuoto lasciato dai servizi territoriali.»
Disturbi psichiatrici e uso di droghe sono fenomeni collegati nell’adolescenza?
«Sì, in modo stretto. Tra gli adolescenti tossicodipendenti, una percentuale altissima presenta almeno un disturbo psichiatrico concomitante, la cosiddetta “doppia diagnosi”. Il nostro sistema sanitario non è preparato a gestire questa complessità: SerT e Dipartimenti di Salute Mentale spesso lavorano in compartimenti stagni e, per i minori, il problema è ancora più grave. Servono protocolli condivisi, strutture integrate e una rete socio-sanitaria capace di un intervento tempestivo e personalizzato. È una questione di sicurezza pubblica tanto quanto la presenza delle forze dell’ordine in strada.»
In conclusione: come si costruisce una sicurezza credibile e duratura?
«Con un’alleanza sistemica. Stato, scuola, famiglie, servizi sanitari e terzo settore devono operare in modo coordinato. La sicurezza non nasce dalla paura, ma dalla coesione sociale. Si costruisce con la prevenzione educativa, con la certezza della pena, ma anche con opportunità reali e comunità che funzionano. Dobbiamo smettere di inseguire l’emergenza. La violenza si combatte prima che esploda: servono investimenti a lungo termine e una visione politica che, troppo spesso, in Italia è mancata.»


