Il dibattito sul fine vita è tornato al centro dell’attenzione nazionale dopo il caso del suicidio assistito delle gemelle Kessler, un episodio che ha scosso l’opinione pubblica e riacceso il confronto su autodeterminazione, dignità e limiti dell’intervento medico.
In Italia manca ancora una legge nazionale sul fine vita, capace di regolamentare in modo chiaro il suicidio assistito o l’eutanasia. Al momento esiste solo il quadro delineato dalla Corte Costituzionale: con la sentenza Cappato–Antoniani (n. 242/2019), i giudici hanno stabilito che, in particolari condizioni, aiutare una persona a morire non è punibile. La decisione deve però essere valutata attraverso verifiche mediche rigorose e il Servizio sanitario nazionale deve garantirne l’iter. La Corte ha ribadito che una normativa organica è indispensabile: una sentenza non basta a colmare un vuoto legislativo così delicato. Su questo punto convergono giuristi, medici, bioeticisti e gli stessi giudici costituzionali: senza una legge unica, il diritto rischia di essere applicato in modo frammentato, con differenze significative tra regione e regione.
Nel frattempo, alcune amministrazioni locali hanno iniziato a definire una propria cornice normativa. La Toscana, con la legge regionale n. 16/2025, e la Sardegna, con la n. 26/2025, hanno disciplinato procedure e tempi per il suicidio medicalmente assistito; Emilia-Romagna e Puglia sono intervenute attraverso delibere amministrative; altre regioni restano invece in attesa di legiferare.
Per approfondire la questione, abbiamo intervistato il dottor Gregorio Scribano, esperto di comunicazione, opinionista politico e pioniere del giornalismo partecipativo in Italia, da sempre impegnato nel promuovere un dialogo informato sui temi etici e sociali di maggiore rilevanza pubblica.
Dottor Scribano, il caso del suicidio assistito delle gemelle Kessler ha profondamente colpito l’opinione pubblica. Come interpreta questo episodio?
Il caso delle gemelle Kessler è emblematico non solo per il suo grande impatto mediatico, ma anche per ciò che rappresenta a livello giuridico e simbolico. In Germania, come ricorda la sentenza della Corte costituzionale del 26 febbraio 2020, il divieto penale all’assistenza al suicidio – stabilito dal paragrafo 217 del codice penale – è stato dichiarato incostituzionale proprio perché limitava il diritto fondamentale all’autodeterminazione.
Secondo quella pronuncia, ogni individuo ha il diritto di decidere liberamente e responsabilmente di porre fine alla propria vita e di chiedere l’aiuto di terzi, ma solo in un percorso ben valutato, senza che la persona che assiste lo faccia in modo attivo (l’eutanasia attiva resta vietata).
La scelta delle Kessler – decisa e ponderata – rientra esattamente in questo quadro. Non si tratta di un gesto impulsivo, ma di una decisione presa dopo colloqui con un avvocato e un medico, come previsto dalle pratiche seguite da associazioni quali la Deutsche Gesellschaft für Humanes Sterben.
Questo caso richiama con forza la necessità, anche per l’Italia, di un regolamento chiaro: perché non possiamo dipendere solo da sentenze o leggi regionali quando si tratta di scelte così radicali.
La Regione Toscana ha recentemente approvato una legge che regolamenta il suicidio assistito. Qual è il suo giudizio su questo provvedimento?
La Toscana ha compiuto un passo significativo. Il suicidio assistito è un tema complesso che tocca etica, religione, medicina e diritto, ma anche la libertà individuale. Una legge regionale che recepisce le indicazioni della Corte Costituzionale e stabilisce tempi certi rappresenta un segnale importante. Tuttavia, è evidente la necessità di una norma nazionale che garantisca uniformità, evitando una regolamentazione frammentata.
Crede che l’Italia sia pronta per una legge nazionale sul fine vita?
Rispetto al passato, la società è più matura e consapevole. Le sentenze della Corte Costituzionale hanno messo in luce il vuoto normativo esistente. Il vero nodo è il confronto politico e culturale, spesso polarizzato tra autodeterminazione e opposizione etica o religiosa. Una legge nazionale sarebbe indispensabile per tutelare sia la libertà individuale sia le persone vulnerabili.
Quali principi fondamentali una legge nazionale dovrebbe garantire?
Prima di tutto il diritto alla scelta informata e consapevole. Servono criteri chiari per l’accesso e un percorso di valutazione che coinvolga medici, psicologi e bioeticisti per verificare la capacità di intendere e volere del paziente. È essenziale inoltre che siano presentate tutte le alternative disponibili, come cure palliative e sedazione profonda, affinché la decisione non derivi dalla mancanza di opzioni.
C’è chi teme che una legge sul fine vita possa esporre i più fragili a pressioni. Che cosa risponde?
La preoccupazione è fondata. Proprio per questo occorrono processi rigorosi, supervisioni trasparenti e garanzie solide. Non si parla di creare un “liberi tutti”, ma di definire regole precise che tutelino la libertà individuale e prevengano ogni forma di abuso o coercizione.
Il dibattito pubblico italiano è maturo per affrontare questo tema?
Il dibattito è ancora molto polarizzato, ma la sensibilità collettiva è cambiata. Le persone percepiscono sempre più il fine vita come una dimensione personale. Ma è fondamentale un’informazione corretta per evitare slogan o semplificazioni che distorcano un tema così delicato.
Perché il tema del fine vita suscita un confronto così acceso in Italia?
Perché coinvolge la sfera più intima dell’essere umano: la dignità, la sofferenza, la vita e la morte. In Italia pesa inoltre una forte tradizione culturale cattolica, combinata con un impianto legislativo che riconosce il diritto al rifiuto delle cure, ma non l’eutanasia. Il nodo centrale è il bilanciamento tra autodeterminazione e tutela della vita.
Lo Stato dovrebbe avere l’autorità di decidere sul fine vita del singolo?
Lo Stato ha il dovere di proteggere la vita, ma in una democrazia laica deve anche tutelare il diritto all’autodeterminazione. La difficoltà è conciliare queste due dimensioni senza che una prevalga sull’altra.
La legalizzazione dell’eutanasia potrebbe modificare la percezione collettiva della vita e della morte?
Ogni riforma normativa produce effetti culturali. C’è il rischio di una progressiva normalizzazione della morte assistita. Tuttavia, l’esperienza internazionale mostra che regole chiare e controlli rigorosi evitano abusi e garantiscono scelte ponderate.
Che cosa pensa delle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT)?
Sono strumenti fondamentali per rispettare la volontà del paziente quando non può più esprimersi. Ma la loro applicazione pone interrogativi etici e giuridici delicati. È indispensabile una disciplina univoca che prevenga ambiguità interpretative.
Quale ruolo dovrebbe avere il medico in questo contesto?
Il medico deve alleviare la sofferenza e garantire la dignità del paziente. Il fine vita mette a fuoco il confine tra cura e accompagnamento alla morte. Qualunque sia la legge futura, deve essere rispettata la libertà di coscienza del medico, e allo stesso tempo la possibilità di chi vuole assistere il paziente nel percorso.
Come dovrebbe evolversi il dibattito italiano?
Serve un dialogo aperto, plurale e non ideologico, che coinvolga professionisti della sanità, giuristi, filosofi, rappresentanti religiosi e cittadini. La normativa deve proteggere il valore della vita, ma anche la dignità e la libertà dell’individuo. L’obiettivo è una legge chiara, giusta e applicabile, che non lasci indietro nessuno.
In conclusione, qual è il punto centrale della questione?
La questione non riguarda solo la legge, ma il modo in cui una società concepisce la dignità della vita e della morte. Bisogna proteggere i più fragili da pressioni esterne, ma anche garantire a ciascuno la possibilità di scegliere una morte dignitosa e consapevole. Al centro deve sempre esserci la volontà dell’individuo, accompagnata dal supporto dello Stato e della comunità.


