Donald Trump non è mai stato un mistero. È stato un megafono dell'intolleranza sin dall'inizio della sua carriera politica e, con il tempo, si è semplicemente tolto qualsiasi filtro. Quando definì Haiti e i Paesi africani “shithole countries” [paesi di merda, tr.] era chiaro a chiunque che quel linguaggio non era una gaffe, ma un programma politico.

Di recente, durante un incontro televisivo, ha definito “immondizia” gli immigrati somali del Minnesota, auspicandosi che  venissero “rispediti da dove sono venuti”. Non c'è più neanche il tentativo di camuffare tali dichiarazioni: si tratta di razzismo, razzismo sfacciato, oltretutto istituzionalizzato.

A rendere il quadro ancora più grottesco è la platea che ha applaudito tali parole. Non solo i fedelissimi so rimasti in silenzio, ma perfino il vicepresidente Vance ha battuto il pugno sul tavolo in segno di approvazione, mentre la portavoce della Casa Bianca ha definito tali parole “epiche”. Chi lo sostiene – e soprattutto chi oggi fa finta di non sentire – è complice del degrado morale che la politica americana sta attraversando. Perché quando un leader definisce “spazzatura” intere comunità, chi lo vota gli offre una legittimazione che diventa arma.

Trump non si limita a parlare: costruisce politiche attorno alle sue farneticazioni. Ha bloccato l'ingresso ai rifugiati non europei, ha permesso rastrellamenti etnici mascherati da controlli migratori, ha dipinto immigrati e neri come un pericolo permanente. Lo schema è sempre lo stesso: alimentare paura, costruire un nemico e poi promettere di eliminarlo [in Italia Salvini e Meloni, in base a tale modus operandi, possono esser considerati suoi discepoli].

E non è un dettaglio secondario che perfino una parte di coloro che lo avevano sostenuto – membri delle comunità somale del Minnesota – ora dichiari apertamente di temere per la propria sicurezza. Se un presidente contribuisce a generare minacce reali contro cittadini già marginalizzati, non è “retorica dura”: è irresponsabilità pericolosa.

Storici e analisti lo dicono senza mezzi termini: questo livello di linguaggio razziale da parte di un presidente in carica non ha precedenti nella storia moderna degli Stati Uniti. Né Nixon, né Reagan, pur accusati di razzismo strisciante, sono mai arrivati a tale livello. Ma la cosa ancor più preoccupante è che chi lo vota finge che tutto ciò sia normale, persino necessario.

È un problema che supera il dibattito ideologico. Non si tratta di destra o sinistra, immigrazione o sicurezza. Si tratta di un paese che permette che le parole razziste del potere diventino consenso politico. E chi lo sostiene, chi lo giustifica, chi tace, sceglie consapevolmente un modello di società dove l'umiliazione pubblica delle minoranze è intrattenimento e strategia elettorale.

La domanda, oggi, non è più “come fa Trump a dirlo?”, ma “come fanno milioni di americani a tollerarlo?” Perché quando un leader sdogana apertamente la disumanizzazione, chi lo applaude non è innocente spettatore: è ingranaggio dello stesso meccanismo. Lo stesso vale per chi non condanni l'apartheid e il genocidio dello Stato ebraico di Israele, uno Stato canaglia i cui crimini risalgono fin dalle sue origini [1948].

Questa è l'America di oggi: uno Stato in cui il potere insulta, l'opinione pubblica ride, i più vulnerabili tacciono per paura, e la politica chiama tutto ciò “momento epico”.

Se questo è ciò che Trump e i suoi sostenitori vogliono rappresentare, almeno abbiano il coraggio di ammetterlo: non stanno difendendo il Paese, stanno celebrando il razzismo, pretendendo che l'odio come metodo di governo sia normale e dovuto.