Al Doha Forum, il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani ha spazzato via ogni ambiguità: la situazione a Gaza non è un cessate il fuoco. Al Thani ha precisato che ciò che si sta vivendo è solo una pausa, e che uno stop reale alle ostilità richiederebbe una condizione oggi assente: il ritiro totale dell'esercito israeliano dalla Striscia, la stabilità interna e la libertà di movimento per i civili.

Il premier ha ricordato che dall'inizio della tregua del 10 ottobre, Israele si è ritirato fino alla cosiddetta Yellow Line, una demarcazione provvisoria che taglia Gaza in due. Il valico di Rafah, che sarebbe dovuto tornare operativo, è rimasto invece chiuso per settimane. Più recentemente, Tel Aviv ha acconsentito a riaprirlo in uscita per i palestinesi, ma l'Egitto ha respinto l'idea, chiedendo - giustamente - che la riapertura sia nei due sensi: in entrata e in uscita.

Al Thani ha sottolineato che Qatar, Turchia, Egitto e Stati Uniti stanno cercando di sbloccare la fase successiva dell'accordo, quella che dovrebbe avviare un governo tecnico palestinese e dispiegare una Forza Internazionale di Stabilizzazione sotto la  supervisione di un Board of Peace guidato da Donald Trump.

Pur riconoscendo l'impegno di Washington — e in particolare i contatti diretti con Hamas che avrebbero permesso i “punti di svolta” dell'intesa di ottobre — il premier qatariota ha messo in chiaro che la seconda fase non risolve il cuore del conflitto. Gaza non è l'intero problema: la questione riguarda anche la Cisgiordania e il diritto dei palestinesi a uno Stato.

 Al Thani ha poi ricordato a coloro che criticano il Qatar che l'unico modo per ottenere scambi di prigionieri e cessazioni delle ostilità è avere un canale diretto.

Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha invitato tutti a mantenere aspettative realistiche sulla forza internazionale prevista dal piano USA. La Turchia è pronta a contribuire, ma senza finire nel ruolo di gendarme contro Hamas o pedina in un conflitto diretto con Israele. È evidente che Ankara non accetterà un mandato che la trasformi in braccio armato delle richieste israeliane, e Tel Aviv non vuole truppe turche in campo.

Fidan ha ammesso che la struttura della forza internazionale è tutta da costruire: missione, regole d'ingaggio, lista dei Paesi, catena di comando. L'obiettivo dichiarato è separare fisicamente palestinesi e israeliani lungo il confine, e lavorare in parallelo con una polizia palestinese selezionata e un'amministrazione civile credibile. La smilitarizzazione di Hamas non è sul tavolo immediato: secondo Ankara, pretendere il disarmo nella prima fase è semplicemente irrealizzabile.

Il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty, invece, auspijca che la forza internazionale vada dispiegata il prima possibile. Per Il Cairo, ogni giorno senza monitoraggio è un giorno in cui la tregua viene violata. L'Egitto insiste anche su Rafah: non può diventare il corridoio di un esodo palestinese. È un punto non negoziabile.

La linea è condivisa da diversi Paesi arabi e musulmani: nessuno accetterà che il valico si trasformi in uno strumento di trasferimento forzato dei palestinesi.

L'intero impianto — governo tecnico palestinese, forza internazionale, Board of Peace e ritiro israeliano — è ancora incompiuto. Israele frena, Hamas non intende disarmare, e gli Stati mediatori si accusano a vicenda mentre tentano la mediazione.

Al Thani ha definito questa fase “critica” non per enfasi diplomatica, ma perché la tregua non può restare sospesa all'infinito. Israele non lascia la Striscia, Hamas non consegna le armi, e nessuna struttura internazionale è stata ancora costruita.

La fotografia politica uscita dal Doha Forum è brutale: fermare il fuoco è stato difficile, stabilizzare la pace lo sarà molto di più.

Naturalmente, tutto inizierebbe a funzionare se "almeno" i Paesi europei iniziassero ad applicare rigide e pesanti sanzioni allo Stato canaglia di Israele... invece preferiscono appoggiare i suoi crimini finendo - gioco forza - per esserne complici.