La Palestina del 1947 era un paese arabo. La stragrande maggioranza della popolazione era palestinese, la terra apparteneva quasi interamente ai nativi, e l'identità del paese era chiara e radicata. Eppure, con la Risoluzione 181, l'ONU decise di regalare più della metà del territorio a un movimento coloniale europeo: il sionismo.

Nonostante gli ebrei possedessero meno del 6% della terra e fossero solo un terzo degli abitanti – peraltro in gran parte immigrati recenti – l'Assemblea Generale scelse di ignorare ogni principio di giustizia, autodeterminazione e democrazia. La spartizione non fu una "soluzione di compromesso": fu l'imposizione dall'alto di un progetto coloniale, un sopruso legittimato con il sigillo delle Nazioni Unite.


L'inganno della "terra contesa"

Si parla spesso di Palestina come di un "paese misto". È una menzogna utile a chi vuole mascherare la realtà: nel 1947 la Palestina era decisamente araba, con una presenza ebraica minoritaria e concentrata nelle città. 

Alla fine del Mandato Britannico, la Palestina manteneva un carattere decisamente arabo. Quasi tutta la terra coltivata era di proprietà della popolazione nativa; appena il 5,8% era di proprietà ebraica. Questo dato rende fuorviante definire il paese semplicemente "misto". I nuovi arrivati ebrei, nonostante gli sforzi dei leader sionisti, avevano prevalentemente scelto di stabilirsi nelle aree urbane. Gli insediamenti rurali sionisti, costruiti come presidi militari fortificati per via del loro isolamento, apparivano come isole distanti e separate, in netto contrasto con i villaggi palestinesi aperti, integrati nei loro campi e oliveti.


Londra e l'ONU complici del colonialismo

Il Mandato britannico non portò la Palestina verso l'indipendenza, come promesso, ma la consegnò al progetto sionista. Con la Dichiarazione Balfour del 1917, Londra si era impegnata a creare un "focolare ebraico" sulle spalle della popolazione locale. Nel 1947, quando gli inglesi passarono la questione all'ONU, era già chiaro che i palestinesi erano stati traditi.

L'UNSCOP, un comitato improvvisato e ignorante della storia locale, si schierò senza esitazione con il sionismo. Invece di riconoscere i diritti della maggioranza, decise di compensare gli ebrei per i crimini nazisti in Europa a spese dei palestinesi. Un'ingiustizia doppia: alle vittime dell'Olocausto veniva data una "soluzione" coloniale, e i palestinesi diventavano le nuove vittime.

L'idea di dividere la Palestina in due stati, inizialmente una proposta britannica, divenne dal 1937 il cardine della politica sionista. Di fronte al rifiuto di entrambe le parti per soluzioni alternative come uno stato binazionale o un sistema cantonale, la Gran Bretagna, nel febbraio 1947, si arrese e passò la questione alle neonate Nazioni Unite.

Il compito fu affidato a un comitato speciale, l'UNSCOP, privo di esperienza e di una profonda conoscenza della storia palestinese. Pur avendo brevemente considerato l'ipotesi di un unico stato democratico, l'UNSCOP finì per raccomandare la spartizione in due entità tenute insieme da un'unione economica, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Questo piano confluì nella Risoluzione 181 dell'Assemblea Generale ONU, approvata il 29 novembre 1947.


La voce palestinese silenziata

I palestinesi e la Lega Araba respinsero la spartizione, denunciandola come un furto legalizzato. Ma la loro posizione fu ignorata. Gli emissari sionisti, al contrario, riuscirono a imporre le proprie richieste: arrivarono a reclamare l'80% della terra e ottennero comunque il 56%. L'ONU non negoziò, non ascoltò, non rispettò la popolazione autoctona: semplicemente eseguì il progetto coloniale.

La risoluzione dell'ONU ignorò deliberatamente la composizione demografica ed etnica del territorio. Se avesse concesso agli ebrei uno stato proporzionale alla terra che effettivamente possedevano, questi avrebbe coperto appena il 10% della Palestina. Invece, accettando le rivendicazioni nazionaliste sioniste e volendo in qualche modo risarcire gli ebrei per l'Olocausto, l'ONU assegnò al movimento sionista oltre il 56% del territorio.

Questa decisione violò i diritti fondamentali della maggioranza palestinese e calpestò gli interessi del mondo arabo, in un momento di fervente lotta anticoloniale. La leadership palestinese e la Lega Araba, che si erano opposte alla spartizione fin dal 1918, boicottarono i negoziati. Il movimento sionista, al contrario, colse l'opportunità di instaurare un dialogo bilaterale con l'ONU, un modus operandi che si ripeterà nella storia dei successivi negoziati di pace, spesso escludendo la controparte palestinese.

L'annuncio della partizione non calmò le acque, ma fece esplodere le tensioni latenti. La vita normale cessò e un senso di cupo presagio si diffuse in tutto il paese. Il caos che ne seguì segnò l'inizio della prima guerra arabo-israeliana e, soprattutto, diede il via alla Nakba, la catastrofe palestinese: la pulizia etnica sistematica della popolazione nativa dalla terra che le era stata assegnata dal mandato internazionale e sulla quale viveva da secoli.


La catastrofe annunciata

La spartizione non portò la pace, come i suoi promotori dichiaravano. Portò guerra, sangue e distruzione. Dal novembre 1947, la Palestina precipitò nel caos, e la macchina della pulizia etnica si mise in moto. Villaggi interi furono rasi al suolo, centinaia di migliaia di palestinesi cacciati, e sulle rovine della loro società nacque lo Stato di Israele.

La risoluzione del 1947 non fu quindi una soluzione, ma l'inizio di una tragedia che continua a risuonare ancora oggi, dimostrando come l'imposizione di confini calati dall'alto, senza il consenso della popolazione indigena, sia destinata a generare instabilità e sofferenza durature.

Quella decisione dell'ONU non fu solo un errore politico. Fu un crimine storico, l'inizio della Nakba, la catastrofe palestinese che ancora oggi continua. La spartizione del 1947 dimostra che quando la comunità internazionale decide di sacrificare un popolo sull'altare degli interessi coloniali, il risultato non è la pace, ma la violenza permanente.