La guerra tra Russia e Ucraina continua a rappresentare una delle fratture più profonde e dolorose del nostro tempo. Al di là delle narrative contrapposte, resta la necessità di osservare questo conflitto con lucidità, senza semplificazioni né propaganda. Perché ciò che accade non è soltanto una battaglia sul campo: è uno scontro politico, identitario, strategico. Riguarda la storia d’Europa, le ambizioni delle potenze globali e il destino di milioni di persone che ne sopportano le conseguenze.

Proprio l’Europa, però, si rivela l’anello più fragile della catena. Unita solo dalla moneta, ma divisa da interessi nazionali spesso inconciliabili, incapace di dotarsi di una politica estera comune e di una difesa integrata, l’Unione appare come un organismo con molte teste, tante voci e poche certezze. Senza un esercito europeo, senza una voce diplomatica unitaria, senza un vero progetto di sicurezza condiviso, il continente si ritrova, obtorto collo, a seguire il ritmo imposto dalle superpotenze mondiali.

La dipendenza dagli Stati Uniti è strutturale: Washington decide, Bruxelles si adegua. Cambiano i presidenti, cambiano i toni, ma la sostanza resta invariata. Oggi - con un’America concentrata sui propri interessi, che impone dazi e l’acquisto di energia e armi “Made in U.S.A.” - l’Europa naviga su una rotta che non è la sua. Oscilla tra fermezza e timori, tra solidarietà e prudenza, tra principi di democrazia e libertà e realpolitik. Un equilibrio precario, ulteriormente indebolito da nazionalismi crescenti, governi che guardano in direzioni opposte e leadership impegnate più a inseguire il consenso interno che a guidare il continente.

In questo scenario si inserisce l’aggressione russa all’Ucraina, da condannare senza esitazioni, che rappresenta anche il tentativo di Mosca di recuperare un ruolo perduto. La disgregazione dell’Unione Sovietica dopo il crollo del muro di Berlino e il progressivo avvicinamento della NATO ai confini russi hanno lasciato profonde cicatrici nel Cremlino. Non è una giustificazione, ma una chiave di lettura necessaria per capire un conflitto che nasce da decenni di tensioni, smottamenti geopolitici e percezioni di insicurezza.

Da oltre due anni l’Europa sostiene l’Ucraina con armi, fondi e assistenza economica. È un impegno che ha impedito a Kiev di essere travolta nelle prime fasi dell’invasione russa, ma che ha anche messo sotto pressione i bilanci degli Stati membri. In Paesi come l’Italia, dove già pesano problemi strutturali nella sanità, nella sicurezza, nei salari e nelle pensioni, una parte dell’opinione pubblica percepisce questo sostegno come una distrazione di risorse da priorità interne che da tempo chiedono risposte concrete.

Ma oltre il dibattito interno ai singoli Paesi, c’è un dato più generale che nessun governo europeo può ignorare: la retorica della “solidarietà senza limiti” si scontra con la realtà. Gli arsenali europei non sono inesauribili, le economie mostrano stanchezza, l’inflazione pesa sulle famiglie e le società sono sempre più divise sul ruolo dell’Europa in questa guerra. E soprattutto c’è un punto che rimane ineludibile: l’Unione Europea non può permettersi un coinvolgimento diretto in un conflitto che rischierebbe di travolgerla, perché non ha né la forza militare né la compattezza politica per reggere una escalation.

È in questo contesto che emerge la questione più scomoda, troppo spesso rimossa dal dibattito pubblico: quali sono oggi le reali capacità dell’Europa? Può davvero immaginare di imporre a Mosca le condizioni di una “pace giusta”?

Per quanto possa essere auspicabile sul piano morale, l’idea che Putin possa semplicemente ritirarsi entro i vecchi confini, restituire i territori occupati e accettare una sconfitta diplomatica senza reagire, solo perché Bruxelles lo ritiene equo, appartiene più al regno dei desideri che a quello della politica. È una visione che ignora gli equilibri di potere reali, la natura del regime russo, l’importanza strategica che il Cremlino attribuisce a quei territori e, soprattutto, i limiti attuali dell’Unione Europea.

L’Europa non ha uno strumento militare comune, non ha un esercito integrato, non ha un comando unico, non ha un arsenale condiviso. La sua politica estera si regge spesso su compromessi minimi, e la sua capacità di deterrenza dipende ancora in larga misura dagli Stati Uniti. In queste condizioni, pretendere di dettare le condizioni della pace a una potenza nucleare come la Russia non è solo irrealistico: rischia di trasformarsi in un boomerang diplomatico.

Questo non significa abbandonare l’Ucraina, né legittimare l’aggressione russa. Significa però riconoscere che l’Europa, in questa fase storica, non dispone degli strumenti per imporre un assetto post-bellico secondo i propri criteri, perché non è ancora un attore geopolitico maturo, coeso e autonomo.

La guerra in Ucraina, oltre a essere una tragedia umana, ci mette di fronte a un paradosso: l’Europa vuole difendere un ordine internazionale basato sul diritto, ma non ha ancora la forza necessaria per farlo. E finché rimarrà un gigante economico ma un nano strategico, le sue ambizioni di “pace giusta” rischieranno di rimanere soltanto un esercizio retorico.

Forse è proprio da questo limite che bisognerebbe ripartire. Non per arrendersi, ma per capire che senza una vera unione politica, senza una difesa comune e senza un’autonomia strategica reale, l’Europa non potrà mai sedersi ai tavoli che contano come protagonista. E non potrà mai permettersi di parlare davvero di pace.

Per questo l’Europa, nella sua attuale debolezza ed inconsistenza, farebbe bene ad appoggiarsi al piano di pace americano, pur consapevole che non sarà una soluzione ideale. È semplicemente l’unica via realistica per evitare un allargamento del conflitto che nessun Paese europeo potrebbe sostenere.

La guerra in Ucraina non è solo una tragedia umana e un conflitto territoriale: è lo specchio impietoso di un’Europa che non è mai diventata ciò che prometteva. È una lezione amara, ma forse ancora utile. Perché continuare così - divisi e deboli - significa condannarsi a un ruolo marginale in un mondo che non aspetta chi esita. Ripartire da queste fragilità è l’unica strada. Ma serve coraggio. Serve che ogni Stato membro rinunci a una parte significativa della propria sovranità nazionale. Perché solo diventando davvero gli Stati Uniti d’Europa potremo smettere di subire la storia e tornare finalmente a scriverla.