Un analista nato a Gaza e filopalestinese che denuncia la manipolazione di una crisi di fame da parte di Hamas non è certo la fonte che ci si aspetterebbe dietro un post che suona come scritto da un combattente filoisraeliano su Internet. Eppure è esattamente ciò che Ahmed Fouad Alkhatib ha fatto questa settimana, demolendo una delle narrazioni più radicate della guerra.Alkhatib è senior fellow all'Atlantic Council e nella sua bio su X si legge: “Orgoglioso americano, nativo di Gaza, pro-Palestina, pro-pace, anti-Hamas e anti-occupazione militare.” Ha pubblicato una breve clip che mostra gatti che corrono sopra scatole di latte artificiale per neonati in un magazzino di Gaza. Si sente una voce angosciata dire in arabo: “Oh Dio, questi sono ladri e criminali. I nostri bambini stanno morendo di fame mentre gli aiuti vengono accantonati. Li hanno nascosti invece di distribuirli.”Spiegando il filmato, Alkhatib ha scritto: “Nei peggiori giorni della crisi della fame a Gaza negli ultimi sei mesi, Hamas ha deliberatamente nascosto letteralmente tonnellate di latte artificiale e integratori nutrizionali per bambini, stoccandoli in magazzini clandestini appartenenti al Ministero della Sanità di Gaza.”Questo contrasta nettamente con la narrativa mediatica che ha dominato la copertura globale per mesi, tra primavera ed estate.

Accuse di fame deliberata da parte di IsraeleBasta considerare alcuni titoli:Le Monde, 1 luglio: “Israele limita l'ingresso di latte in polvere a Gaza mentre i neonati muoiono di fame.”L'agenzia di stampa turca, ostile e controllata dallo Stato, Anadolu Agency, il 28 luglio: “Oltre 40.000 neonati a rischio di morte a Gaza a causa del divieto israeliano sul latte artificiale, avvertono le autorità.”La BBC, a maggio: “‘Niente cibo quando ho partorito': la malnutrizione aumenta a Gaza mentre il blocco israeliano entra nel terzo mese.”Il tema è inequivocabile: Israele starebbe affamando deliberatamente i bambini di Gaza. Ma il post di Alkhatib racconta tutt'altra storia – una che molte redazioni hanno preferito non sentire. Secondo lui, lo scopo di nascondere il latte artificiale era “aggravare la crisi della fame e innescare un disastro come parte della narrativa di carestia del gruppo terroristico.”Quando Alkhatib e altri hanno avanzato queste accuse a luglio, nel picco della crisi di “fame”, ha raccontato di essere stato “demonizzato, attaccato, minacciato e trasformato in un reietto dal complesso industriale ‘pro-Palestina' e dalle mafie attiviste, anche se per i gazawi le prove erano così chiaramente davanti ai nostri occhi.”Le sue parole più taglienti, però, sono state queste: “Ciò che in Occidente continua a non essere compreso è che non si può essere pro-Palestina senza anche esercitare una seria vigilanza contro la costante manipolazione dell'opinione pubblica internazionale da parte di Hamas, che si nasconde dietro la sofferenza della popolazione civile della Striscia – sofferenza che le azioni della stessa organizzazione terroristica hanno causato e alimentato. Non permettete mai di diventare utili idioti della propaganda di Hamas.”Questo episodio non è un'eccezione. È la continuazione di un modello lungo decenni: una quasi totale riluttanza ad attribuire responsabilità alla parte araba per le proprie azioni.La crisi dei rifugiati palestinesi? Colpa di Israele – ignorando che furono i leader arabi a rifiutare la partizione e a lanciare una guerra per distruggere lo Stato ebraico.La fame a Gaza? Non perché Hamas ha attaccato brutalmente Israele scatenando una guerra. Non perché nasconde il latte artificiale per incendiare una crisi. No, la colpa ricade automaticamente su Israele, la parte crudele in una narrativa plasmata molto prima che questa guerra iniziasse.Per secoli, la gente è stata condizionata a credere nella crudeltà ebraica – le mostruose calunnie sul “uccidere bambini e usare il loro sangue per le matzot”. Vecchie abitudini difficili da estirpare. Cambiano le parole, ma l'istinto resta: accusare gli ebrei per primi, credere il peggio di loro, e indagare solo dopo, se mai.Di tanto in tanto, però, qualcuno dall'interno della società araba – come Alkhatib, che ha perso 31 familiari a Gaza dal massacro del 7 ottobre – osa parlare.Ha rivelato una verità che molti in Occidente trovano scomoda: Hamas manipola l'opinione pubblica mostrando totale indifferenza per la sofferenza del proprio popolo. Se quella sofferenza aiuta ad avanzare il suo obiettivo finale, la scomparsa di Israele – e se lungo la strada gli “utili idioti” occidentali danno una mano – tanto meglio.Un'ultima osservazione merita attenzione. Alkhatib ha detto che il latte artificiale nascosto era conservato in magazzini del Ministero della Sanità di Gaza, lo stesso ministero le cui cifre sulle vittime vengono trattate come fatti indiscutibili da molta stampa internazionale. Se quel ministero nasconde scorte vitali per fabbricare una carestia, perché qualcuno dovrebbe fidarsi ciecamente dei suoi numeri o delle sue affermazioni?La risposta dovrebbe essere ovvia. La tragedia è che, per molti, non lo è ancora.

Quella sopra riportata è la traduzione dell'allucinante editoriale pubblicato dal Jerusalem Post mercoledì 11 dicembre, con l'intento di dimostrare che i crimini dello Stato ebraico, dall'apartheid al genocidio, siano da ascriversi alla crudeltà di Hamas, che non solo con il suo agire avrebbe giustificato ciò che Israele ha fatto e sta facendo in Palestina, ma avrebbe pure manipolato la stampa e l'opinione pubblica mondiale... tanto dall'averli confusi sulle responsabilità del conflitto.

Perché sottolineare il contenuto di questo articolo? Per far presente ai "distratti" di casa nostra e non solo che, se un quotidiano scrive simili bestialità, simili bestialità non sono ascrivibili solo alla propaganda di Netanyahu e del suo governo e al messaggio che vuol diffondere all'estero (il JP è letto soprattutto nel mondo diplomatico internazionale e tra lettori anglofoni, non tanto tra il pubblico ebraico-israeliano mainstream), ma sono ciò che comunque anche una fetta dell'opinione pubblica crede.

Il dibattito sull'uso del termine genocidio per descrivere le politiche israeliane nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania continua a dividere esperti, giuristi e opinione pubblica. Eppure, come fa notare Zvi Bar'el su Haaretz, gli elementi centrali non sono contestati: il numero dei morti, degli sfollati e delle distruzioni può variare a seconda delle fonti, ma non cambia la sostanza del problema. La discussione tecnica sulla cifra esatta—70.000 morti, forse più—non fa che mettere a nudo una realtà scomoda: si sta litigando non su cosa stia accadendo, ma su quanto debba essere estremo per essere definito genocidio.

Bar'el insiste su un punto che molti evitano: una parte consistente della popolazione israeliana non solo considera legittime uccisioni ed espulsioni a Gaza, ma arriverebbe ad accettarle anche qualora fossero riconosciute come genocidio. È un livello di disumanizzazione che non nasce dal vuoto, e che non riguarda solo i palestinesi dei Territori Occupati. La stessa logica, scrive, si sta riversando contro gli arabi israeliani e contro gli ebrei israeliani che dissentono e rifiutano la narrativa ufficiale.

Quando il desiderio di eliminare un'etnia o un gruppo nazionale diventa socialmente accettabile, la linea tra intenzione e azione finisce per assottigliarsi. Non serve necessariamente lo sterminio fisico per parlare di annientamento: quello politico e culturale può essere altrettanto devastante. In Israele, questo processo avanza da tempo sotto forma di restrizioni, sorveglianza, intimidazioni e campagne che trattano una porzione della popolazione come un nemico interno da schiacciare “per il bene dell'unità nazionale”.

L'autonarrazione dell' “unica democrazia del Medio Oriente” non regge più. Non per i palestinesi, che conoscono la realtà da decenni, e ormai nemmeno per chi osserva dall'esterno. Le pratiche di governo rivelano un volto che combina oppressione, espansionismo e violenza sistemica. L'attuale guerra ha solo amplificato ciò che era già pienamente visibile.

L'ultima proposta di legge, sponsorizzata dal ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir, spinge ulteriormente oltre il confine. Rendere obbligatoria la condanna a morte per i cosiddetti terroristi—in un contesto in cui l'etichetta di “terrorista” viene appiccicata ai palestinesi con estrema facilità—apre la porta a esecuzioni basate su processi fallibili e su accuse spesso politicizzate. Persino l'Associazione medica israeliana, in rottura con il governo, ha dichiarato che i suoi membri non faranno da carnefici.

Ben-Gvir ha presentato la proposta indossando una spilla con un cappio. Una scelta macabra, deliberatamente provocatoria, che rovescia il significato della spilla dedicata ai cosiddetti ostaggi israeliani. Come ricorda l'editoriale di Haaretz, quella simbolizzava la vita; questa glorifica la morte. E non è un caso che i politici che sfoggiano il cappio siano gli stessi che hanno ostacolato ogni negoziato concreto per liberare gli ostaggi.

La celebrazione della morte è ormai parte del discorso pubblico israeliano: c'è chi invoca la fame come arma contro Gaza, chi esalta il numero di vittime palestinesi, chi tratta le violenze in Cisgiordania come routine. In questo clima, la pena di morte obbligatoria non rappresenta un'eccezione, ma una naturale estensione della direzione in cui si sta muovendo lo Stato.

L'editoriale di Haaretz sottolinea che questa legge è persino più estrema di quelle applicate contro i nazisti dopo la Seconda guerra mondiale: non prevede margini, non ammette errori, non lascia spazio a revisioni. E nel mondo ideologico di Ben-Gvir e dei suoi seguaci, anche i bambini arabi possono essere considerati potenziali terroristi. Da qui alla giustificazione dell'irreparabile il passo è breve.

Non esiste alcuna prova che la pena di morte scoraggi atti di terrorismo. Nessuno studio, nessuna statistica seria conferma questa idea. Si tratta di pura vendetta politica, non di una misura di difesa. È un atto che mira più a consolidare una visione suprematista dello Stato che a proteggere realmente la popolazione.

Se Israele desidera davvero continuare a presentarsi come un Paese che tutela la vita, la strada è l'opposto di quella attuale: il cappio—letterale e simbolico—va gettato nella spazzatura della storia insieme alla cultura politica che lo accompagna.

Ma non è questa la strada che lo Stato ebraico di Israele ha deciso di percorrere.