Doveva essere il simbolo del “fare”, il manifesto concreto di un governo che si era presentato agli italiani come l’antidoto all’immobilismo. E invece, dopo tre anni di annunci e trionfalismi, il Ponte sullo Stretto è diventato l’emblema opposto: non il segno della concretezza, ma l’immagine di un potere che si perde tra gli slogan e le carte bollate.
Quello che doveva essere il progetto-simbolo del governo Meloni si è trasformato nella sua caricatura: una promessa sospesa nel vuoto, proprio come il ponte che ancora non c’è.
La Corte dei Conti ha negato il via libera alla delibera Cipess che approvava il progetto definitivo. Non per ostilità politica, ma per una ragione semplice: la legge va rispettata. Mancano pareri obbligatori, la sostenibilità economica è fragile, la procedura appare forzata.
Ma nel racconto della maggioranza tutto questo scompare. La colpa, ancora una volta, è dei “burocrati”, dei “giudici invasori”, dei “poteri che bloccano lo sviluppo”.
Eppure la Corte non ha fatto altro che ricordare una verità elementare: le grandi opere non si costruiscono a colpi di propaganda, e la legalità non è un intralcio, ma una condizione necessaria.
La reazione di Giorgia Meloni – che ha parlato di “ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del governo e del Parlamento” – tradisce un nervo scoperto. Perché dietro la retorica del “fare”, questo esecutivo ha costruito poco e niente e promesso troppo.
Il “ponte dei record” è solo l’ultimo capitolo di una lunga sequenza di miraggi:
il blocco navale mai esistito,
la riforma delle pensioni annunciata e poi archiviata,
la riduzione delle tasse rinviata sine die,
l’abolizione delle accise diventata barzelletta nazionale,
il presidenzialismo ripiegato in un premierato fermo al palo in Parlamento.
Tre anni dopo, resta un catalogo di annunci incompiuti e di riforme sbandierate come vittorie prima ancora di essere scritte.
Meloni continua a raccontarsi come la donna del cambiamento, ma il suo governo è diventato il governo della manutenzione: gestisce l’esistente, attacca chi controlla, esalta ogni minima misura come se fosse una svolta epocale. È la politica del “prometto, ma non mantengo”, quella che confonde il consenso mediatico con il consenso reale.
Ma l’Italia non vive di promesse: vive di salari fermi, di burocrazia che strangola, di un Sud dimenticato, di servizi pubblici che si sfaldano.
E in questo scenario, il Ponte sullo Stretto – evocato come totem del riscatto meridionale – diventa una metafora impietosa: un governo che sventola promesse in campagna elettorale ma, una volta al potere, si inchina ai poteri forti.
Un esecutivo che a parole difende la “sovranità nazionale”, ma nei fatti firma una delle leggi di bilancio più magre della storia repubblicana, piegata ai vincoli di Bruxelles, ai mercati finanziari e perfino alle simpatie americane.
Un governo che doveva “rompere gli schemi” e invece li asseconda tutti, tagliando il welfare e rinnegando le proprie promesse sociali pur di mantenere il favore delle agenzie di rating.
È questa la rivoluzione meloniana? Un sovranismo da conferenza stampa, che si dissolve al primo sguardo della Commissione europea. E che vede il Sud, ancora una volta, ridotto a palcoscenico per un’illusione elettorale.
C’è poi un aspetto ancora più inquietante: la premier sembra vivere ogni forma di controllo – Corte dei Conti, magistratura, stampa – come un atto di sabotaggio personale. È la sindrome del potere che non tollera limiti, che scambia la critica per complotto. Ma in democrazia i limiti non sono un freno, sono garanzia di equilibrio.
Attaccare chi li esercita non è segno di forza, ma di fragilità politica.
E quando un governo inizia a delegittimare i contrappesi, vuol dire che non riesce più a reggere il peso delle proprie contraddizioni.
Il Ponte, in fondo, è solo un simbolo. Ma è un simbolo perfetto di questa maggioranza: promesso, celebrato, mai realizzato.
Il governo Meloni era nato per cambiare l’Italia. Rischia invece di passare alla storia come il governo delle promesse sospese, quello che ha costruito più narrazioni che infrastrutture, più polemiche che risultati.
E così, tra un annuncio e un decreto, tra un “ce la faremo” e un “è colpa degli altri”, resta un’Italia che guarda il mare da entrambe le sponde dello Stretto e si chiede, con un misto di ironia e disincanto: ma questo ponte, almeno nel disegno, porta davvero da qualche parte?


