La malpractice medicosanitaria in Italia rappresenta un fenomeno complesso e multidimensionale che ha profonde implicazioni sul sistema sanitario nazionale e sul settore farmaceutico.
Le cause della malpractice italiana fanno capo a quattro fattori interdipendenti.
All'origine di tutti i mali, c'è il mantenimento di una classificazione medica ormai superata da 30 anni (ICD-9) con tutte le conseguenze del caso sulla loro attribuzione, le loro correlazioni e la corrispettiva appropriatezza specialistica.
Ad esempio, le malattie metaboliche più o meno rare che non vengono prese in carico dall'endocrinologia, bensì dalla dermatologia.
Il mantenimento di una classificazione medica ormai superata comporta inevitabilmente una minore informazione sanitaria diffusa tra la popolazione e, dunque, una minore motivazione a prendersi cura della propria salute.
Ad esempio, gli italiani nel complesso spendono in Salute solo l'8,9% del PIL, a differenza di Germania (12.9%), Francia (12,3%) o Regno Unito (10,9%) ed il problema non è la spesa pubblica statale (superiore agli altri paesi), bensì la scarsa previdenza degli italiani nell'assicurarsi.
Soprattutto, una classificazione medica comporta il mantenimento di una divisione dei compiti fondata sulle conoscenze degli Anni '70, cioè qualifiche troppo generiche (infermiere, medico di medicina generale, specialista) rispetto a quelle degli altri paesi avanzati.
Ad esempio, il sistema anglosassone che distingue i vari ruoli in Healthcare Assistants, Registered Nurses, Specialist Nurses/Advanced Practitioners, Foundation Doctors, Specialty Registrars, fino ai vertici con Consultants e GPs,
La genericità delle funzioni delle singole figure professionali a sua volta è alla base dei tempi di attesa per diagnosi, trattamenti e interventi clinici, spesso superiori agli standard raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Secondo il rapporto del Ministero della Salute del 2022, circa il 35% dei pazienti italiani si trova in condizioni di attesa superiore ai 60 giorni per prestazioni diagnostiche o terapeutiche.
Dulcis in fundo, la Riforma del Titolo V della Costituzione che trasferiva alle Regioni la facoltà legislativa in materia sanitaria, la gestione del Servizio Sanitario e la pianificazione delle risorse.
Ad esempio, la pessima pianificazione che ci ha portato ad essere “al secondo posto in Europa per numero di medici, ma in coda per infermieri" (Fondazione Gimbe).
Ad esempio, la mancanza di coordinamento tra diverse strutture sanitarie. Ad esempio, le forti disparità di accesso alle cure tra una Regione e l'altra, anche quelle essenziali. Ad esempio, i costi molto diversi per la medesima prestazione.
Tutto questo comporta gravi conseguenze sulla salute pubblica, come l'aumento della morbilità e mortalità o il deterioramento della qualità di vita dei pazienti.
Uno studio pubblicato su "The Lancet" nel 2023 evidenzia che i ritardi diagnositici contribuiscono a un aumento del 12% dei decessi legati a tumori e malattie cardiovascolari.
Diversi studi confermano che le attese prolungate portano a peggioramenti delle condizioni cliniche ed a un incremento del ricorso a cure urgenti e ospedaliere e, comunque, delle condizioni di sofferenza fisica e psicologica.
Anche il settore farmaceutico, che rappresenta circa il 15% della spesa sanitaria totale in Italia, subisce direttamente e indirettamente le conseguenze di questo ritardo generalizzato del Servizio Sanitario italiano.
Ad esempio, ci sono le ricadute sull'aumento dei costi sanitari, dato che accessi inappropriati, dilazionati o tardivi contribuiscono solo ad aggravare le condizioni cliniche, portando a trattamenti più complessi e costosi, in particolare nell'introduzione di farmaci innovativi, riducendo l’efficacia delle nuove terapie e rallentando l’adozione di trattamenti avanzati.
Ad esempio, tra le ricadute della malpratice italiana, c'è l'impatto sulle strategie di investimento delle aziende farmaceutiche: le aziende sono spesso riluttanti a investire in ricerca e sviluppo di farmaci destinati a patologie con lunghe liste di attesa, temendo un ritorno economico incerto.
Secondo il rapporto OCSE del 2022, l’Italia investe in totale solo lo 0,7% del PIL in R&S nel settore farmaceutico e biotecnologico, un valore inferiore alla media OCSE di circa l’1,4%. Viceversa, tra i paesi OCSE, Stati Uniti e Germania spendono in R&S farmaceutica circa il 2% del PIL, il Giappone circa il 3,2%, Australia, Regno Unito e Canada circa l'1,7% del PIL, Corea del Sud circa il 4,5% del PIL.
La malpratice in Italia rappresenta una sfida cruciale, con ripercussioni significative non solo sulla salute pubblica e/o sui diritti degli operatori sanitari, ma addirittura sul volume di spesa nazionale e sugli investimenti del settore farmaceutico.
Solo attraverso interventi strutturali e profonde riforme sarà possibile migliorare una situazione così complessa e radicata.

