Train Dreams di Clint Bentley, adattamento del racconto di Denis Johnson, è uno dei film più contemplativi e intensi dell’anno. Presentato al Sundance e arrivato poi nei cinema e su Netflix, racconta la vita del boscaiolo Robert Grainier, un uomo semplice e introverso all’inizio del Novecento, sospeso tra il lavoro duro, la solitudine e un’America che cambia senza sosta.

La narrazione procede per frammenti, ricordi e visioni, trasformando la sua esistenza in un viaggio interiore fatto di silenzi, natura immensa e piccole epifanie quotidiane. Tutto ciò rivive sullo schermo attraverso una performance straordinariamente silenziosa di Joel Edgerton, capace di comunicare emozioni profonde con un gesto, un respiro, un modo di camminare che sembra sincronizzato al vento, alle stagioni, ai treni che solcano il paesaggio.

La fotografia è il cuore del film: girata quasi interamente con luce naturale, ricorre a albe e tramonti come fossero stati d’animo, costruendo immagini in cui l’ambiente non è sfondo ma coscienza. Le composizioni basse, il movimento fluido della camera e la luminosità dorata evocano inevitabilmente il cinema di Terrence Malick per una sensibilità comune: la convinzione che la luce possa raccontare ciò che le parole non dicono. I paesaggi diventano specchi interiori del protagonista, e il montaggio impressionistico restituisce momenti come affioramenti della memoria. Questa scelta estetica ha sedotto molti critici ma ha anche diviso parte del pubblico, per cui il ritmo contemplativo rischia talvolta di risultare eccessivamente lento o rarefatto.

Pur con qualche riserva, Train Dreams resta un’opera di grande sincerità, capace di evocare un’intera esistenza con pochi gesti, pochi suoni, pochissime parole. Un film che non ha paura di essere silenzioso e che racconta il dolore, il tempo e la memoria senza alzare la voce, trovando nella quiete e nella luce la sua forma più autentica.