Negli ultimi anni, e in particolare dall’inizio del conflitto, l’Ucraina sta affrontando una delle più gravi crisi umanitarie legate al rapimento e alla deportazione forzata di minori. Secondo la piattaforma ufficiale Children of War, sono stati registrati oltre 19.500 bambini trasferiti illegalmente nei territori occupati o in Russia, con appena circa 388 restituiti alle famiglie.
Stime indipendenti, come quelle del Yale Humanitarian Research Lab, indicano che il numero reale potrebbe arrivare fino a 35.000 minori dispersi, molti dei quali sottoposti a processi di rieducazione forzata o privati della propria identità nazionale. Il Registro Unificato delle Persone Scomparse in Circostanze Speciali dell’Ucraina segnala inoltre più di 1.700 bambini ancora ufficialmente irreperibili.

Questi dati non rappresentano soltanto cifre fredde: sono storie di famiglie distrutte, infanzie spezzate e intere comunità private dei loro figli.
La missione in Ucraina della Fondazione arriva esattamente a dieci anni dalla storica operazione nei Balcani, quando l’organizzazione intervenne per contrastare il traffico di bambini di etnia rom non registrati nelle anagrafi nazionali albanesi, venduti attraverso il Kosovo a reti di trafficanti internazionali di organi. In quella occasione la fondazione fu anche oggetto di una persecuzione orchestrata da settori corrotti del governo albanese, parte integrante del traffico stesso, che tentarono di ostacolare e screditare l'azione di contrasto messa in atto proprio da olitec. Lo stesso tipo di pressione e tentativi di delegittimazione si sono già rappresentati anche nel progetto ucraino ancora prima di intraprendere ufficialmente la missione.
Allora, come oggi, l’azione fu condotta al fianco delle autorità locali e internazionali, con lo scopo di salvare vite e smantellare reti criminali radicate.

Per l’Ucraina, la Fondazione porterà una tecnologia unica nel suo genere, basata sulla combinazione di Wi-Fi radar e firma elettrica cardiaca. Il Wi-Fi radar consente di rilevare la presenza e i movimenti di una persona anche attraverso pareti e ostacoli; la firma elettrica cardiaca sfrutta invece l’unicità del segnale bioelettrico generato dal cuore per un’identificazione sicura e rapida, anche in condizioni operative complesse.
Questa tecnologia, sviluppata nei laboratori di ricerca della Fondazione, sarà accompagnata da un programma intensivo di formazione rivolto a forze dell’ordine, operatori sociali e volontari, affinché possano utilizzarla in autonomia, garantendo la continuità delle operazioni anche dopo la conclusione della missione.
L’ammissione ufficiale della Fondazione alla missione ha già ricevuto tutte le autorizzazioni necessarie dalle competenti autorità. Il progetto si trova ora in fase preparatoria, con le ultime operazioni logistiche e di coordinamento in corso.
A breve, il gruppo incaricato partirà alla volta di Cracovia, dove verrà raggiunto da altre ONG internazionali che si uniranno alla spedizione. Da lì, il convoglio proseguirà verso Lviv e infine Kiev, punto nevralgico delle operazioni e sede delle prime installazioni e sessioni di formazione.
Abbiamo intervistato Massimiliano Nicolini, nominato a capo di questa missione che vede uomini e donne provenienti da esperienze diverse.
Qual è l’obiettivo primario di questa missione?
L’obiettivo è chiaro: proteggere i bambini ucraini da uno dei crimini più gravi e disumani che possano essere commessi. Non parliamo solo di rapimenti, ma di deportazioni forzate, cambi di identità e, in molti casi, della cancellazione totale delle origini e della cultura di questi minori. Vogliamo fornire alle istituzioni e alle famiglie strumenti concreti per prevenire, individuare e fermare questi atti prima che sia troppo tardi.
Perché l’Ucraina ha bisogno di una tecnologia come la vostra?
Perché il fenomeno è esteso e organizzato. Chi compie questi crimini non agisce in maniera improvvisata, ma seguendo schemi precisi e reti logistiche ben strutturate. Le tecnologie tradizionali di ricerca non sono sempre sufficienti, soprattutto in un contesto di guerra, dove le infrastrutture sono danneggiate e il tempo di reazione è fondamentale. Il Wi-Fi radar e la firma elettrica cardiaca permettono un’identificazione non invasiva e rapida, persino attraverso pareti, il che può fare la differenza tra salvare o perdere un bambino.
Cosa ricorda della missione nei Balcani di dieci anni fa?
È stata un’operazione durissima, sia dal punto di vista umano che logistico. Abbiamo affrontato situazioni in cui bambini rom, invisibili agli occhi dello Stato perché non registrati, venivano letteralmente venduti a trafficanti di organi. Vedere certe cose ti cambia per sempre. Da quella missione abbiamo imparato che la tecnologia da sola non basta: serve la collaborazione diretta con le comunità locali e con chi vive ogni giorno il problema sul territorio. È una lezione che porteremo anche in Ucraina.
Come si svolgerà la missione in concreto?
Partiremo con una squadra multidisciplinare composta da tecnici, formatori e operatori umanitari. Installeremo e configureremo i sistemi, ma soprattutto dedicheremo tempo alla formazione intensiva degli operatori locali. Il nostro obiettivo non è creare dipendenza dalla nostra presenza, ma rendere queste persone autonome nell’uso delle tecnologie. Parallelamente, apriremo un canale diretto di scambio dati e segnalazioni con le istituzioni ucraine e con le ONG internazionali già operative in loco.
Cosa si aspetta come risultato finale?
Mi aspetto di ridurre drasticamente i tempi di intervento in caso di scomparsa di un minore, di aumentare le probabilità di recupero e, soprattutto, di scoraggiare i criminali. Se sanno che le comunità sono dotate di strumenti avanzati di rilevamento e identificazione, penseranno due volte prima di agire. È un deterrente potente, oltre che una risposta immediata.
C’è un messaggio che vuole inviare alla comunità internazionale?
Sì. La protezione dei bambini non è una questione nazionale, è universale. Quello che succede oggi in Ucraina potrebbe accadere altrove domani. Abbiamo la responsabilità morale di intervenire ovunque ci sia un’infanzia minacciata.
Le è capitato di ricevere promesse di aiuto per questa missione?
Purtroppo sì, e qui devo esprimere un rammarico personale. Ci sono state promesse di supporto che si sono rivelate utili solo per fare annunci sui giornali o per frasi da convegno. Quando si passa dalle parole ai fatti, ci si accorge che spesso restiamo soli. È una realtà amara, ma allo stesso tempo ci dà la misura di quanto sia necessario crederci davvero. Fare del bene, oggi, significa spesso farlo contando solo sulle proprie forze e sulla determinazione del proprio gruppo.
Un messaggio forte e chiaro
La missione in Ucraina rappresenta un ponte tra passato e presente: l’esperienza maturata nei Balcani, unita alla più avanzata tecnologia disponibile, viene ora messa al servizio di un popolo che lotta per la sua sopravvivenza e per il futuro dei suoi figli.
È un’azione che unisce competenza scientifica, determinazione e profonda umanità.


