Ignazio "Benito" Maria La Russa si è lanciato con foga nell'ennesima crociata moralizzatrice, stavolta puntando il dito contro il consigliere del Quirinale Garofani per aver espresso giudizi politici durante una cena privata, in un contesto informale, tra tifosi romanisti e amici. Nulla di istituzionale, nulla di ufficiale, nulla che abbia violato alcuna regola: solo un cittadino (che da funzionario ricopre anche un incarico istituzionale) che parla liberamente, in un luogo pubblico ma in un contesto assolutamente privato (una cena con a tavola non più di sedici persone). La Russa, però, insorge indignato, invoca dimissioni, mette in scena l'ennesimo atto di quel moralismo selettivo che ormai è diventato cifra stilistica della destra di governo.
Fa sorridere — o infuriare, dipende dall'umore — che proprio lui, ex agit-prop del MSI, collezionista orgoglioso di cimeli fascisti, compresi busti del Duce esibiti come soprammobili, si erga oggi a paladino dell'etichetta istituzionale. Che un uomo con quel passato si scandalizzi per quattro frasi dette a una cena tra appassionati di calcio suona come una sceneggiata, oltretutto fuori tempo massimo.
Il presidente del Senato ha prima attaccato duramente, sostenendo che il consigliere del Consiglio Supremo di Difesa dovrebbe “lasciare il ruolo”, come se un commento estemporaneo tra conoscenti fosse equiparabile a un atto eversivo. Ha perfino tirato fuori la solita retorica vittimista: “Fosse stato uno di destra oggi lo vedremmo appeso ai lampioni”. Il solito repertorio: lamenti, iperboli, martirologio di partito. Ma il punto resta: è solo stata riportata una conversazione privata. E La Russa, anziché difendere il principio minimo di libertà di parola — peraltro sacrosanto — ha scelto di fare il vigile urbano della moralità altrui.
Peccato che al Colle non l'abbiano presa bene. Pare che la reazione sia stata gelida. E guarda caso, subito dopo, La Russa ha iniziato a smussare gli angoli, a correggere il tiro, a dire che non voleva riaprire nulla, che il caso è chiuso, che non tocca a lui chiedere dimissioni. Insomma, la solita marcia indietro mascherata da “sincerità”, come se non fosse evidente a chiunque che la linea gli è arrivata direttamente da Palazzo Chigi, preoccupato che l'ennesima fiammata di protagonismo potesse sfociare in uno scontro istituzionale.
Alla fine resta una domanda semplice: con quale credibilità una figura che custodisce busti del Duce in casa, che proviene da un partito nato dalle ceneri del fascismo e che per anni ha rivendicato orgogliosamente quel retroterra, può permettersi di bacchettare un consigliere per aver detto in privato ciò che milioni di italiani dicono ogni giorno tra amici?
La risposta è altrettanto semplice: nessuna. E infatti, dietro tutta questa indignazione costruita, rimane solo l'ennesimo tentativo di deviare l'attenzione, trasformare un episodio minore in un caso politico e riaffermare un'autorità che, nei fatti, traballa ogni volta che emerge l'ipocrisia di chi predica bene ma, dentro casa, espone ancora il volto di chi ha portato l'Italia nel baratro.


