L’Italia della racchetta ha imparato a vincere. A prescindere dai nomi, dagli assenti, dai pronostici e persino dalla logica. E così, a una settimana dal trionfo di Jannik Sinner alle ATP Finals, la Nazionale di Filippo Volandri ritocca l’incredibile: batte la Spagna senza bisogno del suo fuoriclasse e conquista per la terza volta consecutiva la Coppa Davis, riportando nel Belpaese un dominio che mancava al tennis mondiale dal 1972, quando gli Stati Uniti infilavano una striscia di cinque successi da dinastia sportiva.
Ma questa volta l’impresa vale doppio. Perché nasce dall’assenza che poteva pesare più di ogni avversario. Senza Sinner, finito persino su uno striscione polemico dei tifosi, l’Italia non solo non si sfalda, ma scopre una nuova solidità, nuovi eroi, una nuova idea di squadra. Ed è forse questo il dato più prezioso di un’epopea azzurra che, dopo anni di speranze, oggi è diventata certezza: la vittoria non è più appesa a un solo nome.
Il palcoscenico è quello caldo, rumoroso, quasi calcistico della Fiera di Bologna, trasformata per una settimana in una Super Tennis Arena capace di spingere una generazione che non teme responsabilità. Matteo Berrettini e Flavio Cobolli, uno alla ricerca del riscatto, l’altro in piena ascesa, hanno raccolto l’eredità pesante degli assenti e hanno firmato una cavalcata senza macchia: Austria, Belgio e Spagna, tutte piegate senza dover mai ricorrere al doppio. Un segnale di forza che in Davis raramente si vede.

Berrettini, l’uomo maturo, ha giocato una finale da veterano: meno di un’ora e mezza per liquidare Carreno Busta con due break chirurgici e una calma quasi disarmante. Un successo pulito, sereno, quasi troppo semplice per una sfida che sulla carta doveva essere equilibrata.
Il giovane Cobolli, invece, ha scelto il sentiero più tortuoso, come già gli era successo contro Bergs. Un primo set disastroso, un inizio del secondo quasi da incubo, poi la scintilla, un contro-break conquistato dopo un game infinito, un punto deciso dal nastro e la spinta di un pubblico che ha trasformato la rimonta in una missione collettiva. Bologna lo ha adottato, lo ha guidato, lo ha quasi trasfigurato. Il tie-break vinto dopo cinque set point annullati è stato il suo battesimo. Il terzo set, un thriller. Il finale, un urlo liberatorio che ha fatto vibrare l’arena sulle note di “siamo noi, siamo noi, i campioni del mondo siamo noi”.
Questo successo è più di un trofeo: è un manifesto. Mentre la Nazionale di calcio fatica, quella del tennis mostra di vivere una stagione irripetibile, nutrita dal talento di Sinner, ma alimentata da una profondità tecnica che pochi Paesi possono vantare. È un movimento che riempie arene, che smuove passione, che vuole, e forse merita, la stessa dignità mediatica del calcio, come ha sottolineato il presidente federale Angelo Binaghi. Se Cobolli deve valere quanto Scamacca, non è soltanto un’affermazione provocatoria: è il sintomo di un Paese che si sta accorgendo di avere tra le mani un tesoro sportivo.
La Davis parla italiano per il terzo anno consecutivo. E questa volta lo fa con un messaggio inequivocabile: l’Italia del tennis ha una nuova età dell’oro. E non dipende più da un solo campione. È una squadra, è un movimento, è un orgoglio. È una certezza.


