L’attacco di Trump alla Somalia e ai migranti: parole che fanno danni veri
Trump ci è ricascato: parole grosse, sparate come se fossero niente, ma che pesano come macigni. Definire la Somalia “un Paese marcio” e dire “non vogliamo i loro migranti” non è una semplice opinione colorita: è un colpo diretto a un intero popolo. E quando queste frasi arrivano da un presidente in carica, diventano un messaggio che rischia di legittimare discriminazioni e ostilità molto più concrete.
La cosa che fa più rabbrividire non è solo il tono, ma l’effetto pratico. Perché dietro gli insulti, Trump avrebbe dato mandato al sistema di immigrazione americano di colpire direttamente gli immigrati somali presenti soprattutto nell’area di Minneapolis-Saint Paul. Gente che lavora, studia, cresce figli. Gente che spesso è scappata da guerra, terrorismo, povertà. E che ora si ritrova etichettata come un problema.
Parole del genere non sono innocue: disumanizzano, rendono “accettabile” trattare male chi appartiene a quella comunità. È un via libera a xenofobi, estremisti, fanatici che trovano nelle frasi del leader un pretesto per sentirsi legittimati. E questo — lo sappiamo bene — è un terreno pericolosissimo.
La Somalia è davvero un Paese complicato: anni di conflitti, terrorismo, crisi economica. Ma nessuna situazione difficile giustifica il disprezzo verso milioni di persone innocenti. Non si possono mettere sullo stesso piano governi, milizie e cittadini che cercano solo una vita più sicura. L’immigrazione è un tema serio, da trattare con lucidità e rispetto, non con slogan al vetriolo.
In un mondo già fragile, con guerre e instabilità ovunque, servirebbe un linguaggio che unisce, non che divide. Parole che costruiscono ponti, non muri. E un po’ di umanità, quella vera, che vede nelle persone—migranti o meno—storie, sacrifici, speranze.
Trump invece sceglie la scorciatoia del nemico facile. Ma quando si colpiscono i più vulnerabili, non è forza: è debolezza travestita da potere. E fa male a tutti, non solo a loro.