La nascita dello Stato d'Israele nel 1948 non fu un evento improvviso, ma l'esito di un lungo processo storico, politico e religioso che prese forma tra Europa e Medio Oriente nell'arco di diversi secoli. Capire quel percorso significa smontare semplificazioni, affrontare contraddizioni e capire cosa sia il progetto sionista.In una serie di articoli si cercherà di ripercorrere le origini dello Stato ebraico analizzandone i retroscena. In questa prima puntata ci concentreremo sulle radici del sionismo.Lo scopo non è ridurre la storia a slogan, ma capire i meccanismi che portarono la Palestina ottomana a trasformarsi, in pochi decenni, nel laboratorio di uno dei conflitti più lunghi e complessi del mondo contemporaneo, oltre ad una colossale ingiustizia nei confronti del popolo palestinese che si è trasformata in genocidio ed apartheid.
Introduzione
Il sionismo, oggi inteso principalmente come il movimento politico che ha portato alla fondazione dello Stato di Israele, non nacque all'interno del mondo ebraico. La sua genealogia è più complessa e contraddittoria: attraversa la teologia cristiana protestante, l'antisemitismo europeo, il fervore nazionalista ottocentesco e le logiche imperialiste delle grandi potenze. La Palestina, che a fine Ottocento si trovava in una fase di transizione storica, divenne teatro di un progetto che avrebbe stravolto la sua struttura demografica e politica.
Il sionismo cristiano: un'idea importata dall'Europa
Nel XVI secolo, nel contesto della Riforma e delle correnti evangeliche, nacque l'idea che il ritorno degli ebrei a "Sion” fosse condizione necessaria per l'avvento della Seconda Venuta di Cristo. Questa visione non nasceva da filantropia verso gli ebrei, bensì da motivazioni escatologiche e, spesso, da un sottotesto antisemita: spingerli in Palestina significava liberare l'Europa dalla loro presenza ingombrante.
Nei secoli successivi, questa idea prese piede soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, sostenuta da figure come William Blackstone e Lord Shaftesbury. L'élite politica vedeva nel "ritorno a Sion” non solo un adempimento biblico, ma un mezzo per strappare la Terra Santa all'Impero ottomano, ostacolo agli interessi imperialisti in Medio Oriente.
Questa matrice cristiano-evangelica resta oggi visibile nel movimento dei sionisti cristiani americani, una delle più potenti lobby filoisraeliane a Washington, fautrice dell'ebraizzazione della Cisgiordania e dell'annessione di nuovi territori.
Il sionismo ebraico: risposta all'antisemitismo e nazionalismo moderno
Il sionismo ebraico prese forma tra XIX e XX secolo, spinto da due fattori principali:
L'antisemitismo europeo – Dai pogrom dell'Impero russo alla discriminazione sistematica in Europa centrale, gli ebrei si trovarono schiacciati tra persecuzioni popolari e pregiudizi di Stato. Molti, inizialmente, credettero in soluzioni alternative: il socialismo rivoluzionario o la costruzione di democrazie liberali inclusive. Ma l'Olocausto avrebbe distrutto definitivamente queste speranze, consacrando il sionismo come unica via di salvezza per la maggioranza del mondo ebraico.
Il nazionalismo ottocentesco – In un'Europa dominata da imperi multinazionali (russo, austroungarico, ottomano), molte comunità cercarono di affermarsi come nazioni indipendenti. Gli intellettuali ebrei si inserirono in questo processo, reinterpretando l'ebraismo in chiave nazionale: la lingua ebraica fu "resuscitata”, i testi religiosi letti come documenti politici e l'Antico Testamento trasformato in atto di legittimità storica sulla Palestina.
I primi coloni e la questione della terra
Dopo i pogrom del 1881, piccoli gruppi di giovani ebrei dell'Europa orientale si stabilirono in Palestina (prima Aliyah, 1882). Finanziati da filantropi come i Rothschild, acquistarono terreni da ricchi proprietari assenti che li avevano ottenuti grazie alle riforme fondiarie ottomane del XIX secolo.
La società rurale palestinese, tuttavia, era strutturata da secoli: villaggi radicati in continuità storica, con contadini che consideravano la terra parte integrante della propria esistenza. I nuovi coloni, inesperti di agricoltura, impararono dai contadini palestinesi, ma al tempo stesso li percepivano come "intrusi” da rimuovere in un futuro Stato ebraico.
Alla fine del dominio ottomano (1918), gli ebrei costituivano solo il 5-6% della popolazione palestinese, ma erano una minoranza organizzata e sostenuta da una crescente diplomazia internazionale.
Herzl, il Congresso di Basilea e la legittimità internazionale
Il salto politico avvenne con Theodor Herzl, giornalista austriaco che organizzò il primo Congresso Sionista a Basilea nel 1897. Qui si adottò ufficialmente l'obiettivo di fondare "una casa per il popolo ebraico in Palestina”.
Herzl puntava a ottenere la legittimazione delle grandi potenze: propose accordi con l'Impero ottomano, cercò l'appoggio britannico e persino valutò un insediamento alternativo in Uganda, ipotesi che però fu respinta nel 1905. Nei suoi diari, Herzl era chiaro: i palestinesi avrebbero dovuto essere "fatti sparire oltre il confine”.
Dopo la sua morte, la guida passò a leader come Chaim Weizmann, che lavorò per costruire una lobby influente a Londra e Washington, vendendo il progetto sionista come baluardo occidentale nel cuore del Medio Oriente.
La Prima guerra mondiale e il gioco delle potenze
Durante la Grande Guerra, la Gran Bretagna promise agli Hashemiti l'indipendenza dei territori arabi, inclusa la Palestina, in cambio della rivolta anti-ottomana. Ma parallelamente, sotto pressione della lobby sionista, Londra maturò la convinzione che una "patria ebraica” in Palestina fosse strategicamente utile per difendere il Canale di Suez e consolidare l'impero.
Il 2 novembre 1917 fu rilasciata la Dichiarazione Balfour, con cui la Gran Bretagna prometteva di sostenere la creazione di una patria ebraica in Palestina, garantendo al contempo (almeno sulla carta) i diritti della popolazione autoctona. In realtà, il documento rappresentava una contraddizione insanabile: prometteva la stessa terra a due popoli, dando priorità a un progetto coloniale rispetto alla maggioranza indigena.
Il Mandato britannico e l'eccezione palestinese
Con la fine della guerra e la caduta dell'Impero ottomano, la Società delle Nazioni introdusse il sistema dei mandati, formalmente concepito per accompagnare i popoli verso l'indipendenza. Iraq, Libano e Siria seguirono questo percorso; la Palestina no.
La promessa fatta agli ebrei tramite la Dichiarazione Balfour vincolava la Gran Bretagna a un progetto coloniale che trasformò il mandato in uno strumento di ingegneria demografica, preparando il terreno allo scontro che avrebbe segnato il Novecento e oltre.
Il sionismo nacque dall'incrocio di forze contraddittorie: la teologia apocalittica dei cristiani evangelici, l'antisemitismo e i pogrom europei, il nazionalismo ottocentesco, gli interessi imperiali britannici. La Palestina, tutt'altro che "terra senza popolo”, si ritrovò al centro di una disputa globale.
Lungi dall'essere un progetto puramente ebraico o religioso, il sionismo fu il risultato di un processo storico internazionale, che vide convergere motivazioni religiose, politiche ed economiche. L'eredità di quelle scelte – dall'esclusione dei palestinesi già prevista da Herzl fino alla Dichiarazione Balfour – continua a determinare i conflitti e le tensioni della regione fino a oggi.


