Ogni anno in Italia si volatilizzano oltre 100 miliardi di euro a causa di evasione ed elusione fiscale. Cento miliardi: una cifra che, da sola, basterebbe a finanziare più di cinque leggi di bilancio analoghe a quella appena varata. È denaro che sparisce nel nulla, sottratto alle scuole e agli ospedali, al trasporto pubblica, alla sicurezza nelle strade, alle infrastrutture che crollano e ai servizi che arrancano. È una gigantesca montagna di denaro che se regolarmente versata nelle casse dello Stato, potrebbe alleggerire la pressione fiscale sugli onesti, che oggi versano allo Stato circa il 42% del proprio reddito!

L’evasione fiscale non è solo un numero nei rapporti annuali del MEF o della Corte dei Conti: è un patto sociale infranto. In un sistema equo, chi guadagna contribuisce per il bene comune, e in cambio riceve servizi efficienti. In Italia, invece, troppo spesso ci si trova davanti a un paradosso: chi evade pretende gli stessi diritti di chi paga, e chi paga finisce per pagare anche per chi non lo fa. Il risultato è un circolo vizioso che logora la fiducia nelle istituzioni, alimenta la rabbia sociale e legittima, nella percezione comune, quella cultura della “furbizia” che ci condanna all’immobilismo.

Eppure, nel dibattito pubblico, l’evasione è trattata come una malattia genetica del Belpaese, un cancro che nessun governo è riuscito davvero a estirpare. Ma un cancro non scompare ignorandolo: si aggredisce con terapie forti, a partire dalla volontà politica. E qui nasce la domanda, inevitabile e scomoda: come costringere chi evade a pagare ciò che deve?

Le risposte non mancano, e non sono affatto utopiche. Servono controlli fiscali realmente incisivi sui grandi evasori, non solo sul piccolo commerciante o libero professionista. Serve rendere la tracciabilità dei pagamenti la regola e non l’eccezione, premiando chi aderisce e penalizzando chi si sottrae. Serve un sistema di deterrenza vera – sanzioni certe, rapide, proporzionate – che renda l’evasione un rischio concreto e non un gioco a costo zero. Serve, soprattutto, un patto culturale: spiegare che pagare le tasse non è una punizione, ma il prezzo della civiltà, della sicurezza, della coesione sociale.

Tracciabilità obbligatoria dei pagamenti. Non come bandiera ideologica, ma come strumento di prevenzione: dove passa il digitale, sparisce il nero.
Incroci automatici delle banche dati (INPS, catasto, fatture elettroniche, movimenti finanziari, auto di lusso, criptovalute). La tecnologia c’è, manca la volontà di usarla senza timori reverenziali.
Sanzioni rapide e certe, non ricorsi infiniti e condoni che permettono al grande evasore di “giocare a scacchi” con l’Agenzia delle Entrate per dieci anni.
Reparti ispettivi potenziati su professionisti e imprese ad alta propensione all’evasione, non sui piccoli esercenti. Dove l’evasione è sistemica, serve repressione sistemica.
Premialità per gli onesti, dalla riduzione automatica delle aliquote per chi risulta fiscalmente affidabile, ai rimborsi più rapidi, fino a forme di cashback fiscale.
Stop ai condoni ricorrenti, l’oppio civile che anestetizza il senso di responsabilità e crea l’aspettativa che “alla fine lo Stato perdona tutto”.
Ma c’è un ulteriore passo, ancora più cruciale: lo Stato deve dimostrare di meritarsi ogni euro che chiede. La lotta all’evasione non può essere disgiunta dalla lotta agli sprechi, alla burocrazia inefficiente, alla politica che predica rigore senza praticarlo. Solo così l’onestà può tornare ad essere conveniente anche economicamente, e non solo moralmente.

Se davvero l’Italia volesse recuperare quelle immense risorse sommerse, potrebbe trasformare il Paese: alleggerire il carico fiscale sugli onesti, migliorare scuola, sanità, infrastrutture, sicurezza del territorio, welfare. Potrebbe, in altre parole, diventare finalmente ciò che avrebbe tutte le potenzialità per essere un grande paese.

Tecnicamente, sarebbe tutto possibile. Politicamente, molto meno. Perché l’evasione, oltre ad essere un cancro, è anche un elettorato: un bacino di voti che nessun governo vuole davvero irritare. E così l’Italia resta ferma in un cortocircuito grottesco: si piange per la mancanza di risorse, si spremono come limoni i soliti fessi, lavoratori dipendenti e pensionati, mentre si accetta che una fetta enorme del Paese non paghi il proprio conto.

Se quei 100 miliardi tornassero alla collettività, si potrebbe abbassare la pressione fiscale a livelli europei, rilanciare gli investimenti, ridurre il debito, modernizzare i servizi pubblici. Ma finché la “furbizia” sarà considerata più intelligente della legalità, finché la politica avrà paura di colpire davvero chi evade, finché il contribuente onesto sarà trattato come lo scemo del villaggio, continueremo a vivere nella più grande contraddizione italiana: uno Stato che chiede sacrifici ai pochi che già pagano e concede alibi ai molti che non pagano da anni.

L’evasione è il cancro del Paese. Ma il problema non è solo il tumore: è la straordinaria capacità di far finta che non esista.