A quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, la verità rimane ancora imprigionata in un dedalo di silenzi istituzionali, depistaggi, mezze ammissioni e ipotesi che si rincorrono da generazioni. Ancora più inquietante è l’associazione — spesso artificiosa — tra il caso Orlandi e quello di Mirella Gregori, scomparsa due mesi prima, il 7 maggio 1983.

Il legame tra i due episodi non nasce da un movente comune, né da un ambiente simile, ma da un modello operativo identico, dagli stessi volti e dagli stessi metodi di adescamento.

Il punto di contatto: chi adescava le ragazze

Sia Mirella sia Emanuela vengono avvicinate da individui che si muovono con sicurezza, preparazione, e soprattutto con la capacità — non banale — di ottenere fiducia da adolescenti inesperte.

Un gruppo organizzato, strutturato, che utilizza pretesti credibili per far spostare le ragazze verso luoghi da cui non torneranno più. Da un lato, l’inganno. Dall’altro, la forza.

Nel caso Orlandi, numerose testimonianze e acquisizioni successive indicano il coinvolgimento di membri della Banda della Magliana, e in particolare del gruppo che faceva capo a Enrico De Pedis, per l’esecuzione materiale del prelievo.

Mirella Gregori: un contesto diverso, una metodologia simile

La storia di Mirella, a differenza di quella di Emanuela, si muove all’interno di un ambiente totalmente diverso:

  • ambiente adulto,
  • possibile circuito pornografico e para–pornografico dell’epoca,
  • perfino l’ipotesi inquietante del mercato dei film snuff approdati in Italia nei primi anni ’80.

Qui sta la differenza: Mirella è vittima di un mondo sporco e sommerso, alimentato da denaro, ricatti e da uomini che orbitavano attorno a produzioni pornografiche clandestine.

L’unica vera anomalia è la presenza, nel bar dei Gregori, di un funzionario del Vaticano che frequentava la famiglia. Una presenza mai chiarita, mai spiegata.

Emanuela Orlandi: un livello superiore, un movente potenzialmente devastante

Per Emanuela, lo scenario si sposta altrove. Non più un mercato sommerso, ma una dinamica che sfiora direttamente le mura leonine.

L’esecuzione materiale del rapimento sembra coerente con la stessa mano che operò su Mirella:

  • lo stesso gruppo di adescamento,
  • lo stesso stile operativo,
  • gli stessi “manovali del crimine”.

Ma il movente è di tutt’altra natura.

Qui entrano in scena domande che scuotono il Vaticano da decenni:

  • Marcinkus forniva i fondi?
  • Casaroli e Poletti hanno orchestrato un’operazione di contenimento?
  • Monignor Vergari sapeva ciò che accadeva sotto la basilica di Sant’Apollinare?
  • E soprattutto: perché?


Le ipotesi più delicate toccano direttamente la reputazione del Pontefice.

C’è chi sostiene che il Papa potesse avere un comportamento ambiguo con Emanuela, fatto di attenzioni non appropriate, se non peggio.

Nessuna prova definitiva, ma troppe convergenze investigative per ignorare il tema.

Una cosa è certa: nel 1983 la Chiesa era già travolta dagli scandali IOR, Banco Ambrosiano e Solidarnosc.

Un’ulteriore esplosione — quella di un Pontefice coinvolto in una relazione impropria con una minorenne vaticana — avrebbe distrutto in modo irreparabile l’immagine della Santa Sede.

Un danno reputazionale incalcolabile, tale da giustificare, per alcuni apparati, qualsiasi intervento.


Due casi, un’unica mano?

LoSul piano tecnico–operativo, Emanuela e Mirella scompaiono nello stesso modo.

Sul piano motivazionale, sono due mondi opposti:

  • Mirella cade dentro un ecosistema di sfruttamento adulto,
  • Emanuela, forse, dentro un vortice politico–religioso ingestibile.

Il risultato finale, però, è identico: due adolescenti sparite nel nulla, due famiglie devastate, e nessuna verità ufficiale.

Dopo 44 anni, l’unica certezza è che il silenzio continua a proteggere chi aveva tutto l’interesse a spegnere queste storie prima che potessero travolgere interi sistemi di potere.