Reporter Senza Frontiere. Il 2025 sta segnando uno dei periodi più letali dell'ultimo decennio per chi fa informazione. I numeri sono chiari nella loro brutalità: 67 giornalisti uccisi negli ultimi dodici mesi a causa del loro lavoro, e la maggior parte non è morta "per caso". Sono stati presi di mira, eliminati, neutralizzati perché testimoni scomodi.

Gaza, Ucraina, Sudan: fronti dove raccontare equivale a esporsi al fuoco
Quasi la metà dei reporter uccisi nell'ultimo anno — il 43% — è stata colpita a Gaza dall'esercito israeliano. Dal 2023, i giornalisti morti per mano dell'esercito israeliano sfiorano quota 220. Almeno 65 di loro stavano lavorando, identificabili come stampa, e sono stati colpiti comunque.

In Ucraina, l'esercito russo continua a puntare ai reporter sul campo, ucraini e stranieri. In Sudan, la guerra interna ha trasformato il Paese in un mattatoio per professionisti dell'informazione: quattro uccisi solo quest'anno, con casi documentati di sequestri e assassinii ad opera delle Forze di Supporto Rapido.

America Latina: il contagio della “messicanizzazione”
Fuori dai teatri di guerra tradizionali, il continente più violento per la stampa resta l'America Latina. Il Messico è, ancora una volta, la seconda nazione più pericolosa al mondo per giornalisti: nove uccisi nel 2025, record degli ultimi tre anni. Non li ammazzano degli eserciti ma cartelli, mafie, gruppi che controllano interi territori mentre lo Stato osserva e sforna dichiarazioni di principio.

La tendenza si allarga. L'area rappresenta il 24% degli omicidi mondiali di giornalisti: segno che il modello messicano — intimidazione sistemica, controllo criminale, corruzione politica — è ormai esportato.

Uccisi a casa propria
Solo due reporter uccisi quest'anno non si trovavano nel proprio Paese: il fotogiornalista francese Antoni Lallican, colpito da un drone russo in Ucraina, e il salvadoregno Javier Hércules, assassinato in Honduras, dove viveva da oltre dieci anni. Tutti gli altri sono morti nel Paese in cui lavoravano. Il segnale è evidente: non servono fronti di guerra per trasformare il giornalismo in un mestiere mortale.

Carcere, sparizioni, silenzio
La repressione non si limita agli omicidi. Sono 503 i giornalisti detenuti. La classifica dell'orrore vede in testa la Cina (121 incarcerati), seguita dalla Russia (48, di cui 26 ucraini) e dal Myanmar (47). In Siria, a un anno dalla caduta del regime Assad, la maggioranza dei giornalisti arrestati o rapiti sotto il suo potere non è ancora ricomparsa. Il Paese detiene il record mondiale di reporter scomparsi: oltre un quarto del totale globale.

“Non muoiono, vengono uccisi”
Thibaut Bruttin, direttore generale di RSF, ha sintetizzato senza filtri l'esito di un sistema internazionale che non protegge più chi documenta guerre, corruzione e abusi: la retorica dell'odio verso la stampa non è un fenomeno accidentale, ma una strategia. Armate regolari, milizie, narcos e governi autoritari vogliono togliere testimoni dal campo. Manipolare il racconto non basta: serve eliminarlo alla radice.

La verità è semplice e scomoda. I giornalisti non muoiono “per la causa”. Nessuno sceglie di farsi ammazzare per informare. La vita viene loro tolta. La libertà di stampa non sta arretrando: viene smantellata pezzo dopo pezzo, in piena luce, tra droni, esecuzioni mirate, carcerazioni di massa e sparizioni.

Il bilancio 2025 non è solo un numero. È la prova che il mondo ha smesso di proteggere chi lo racconta. E che l'impunità — ormai regola, non eccezione — sta trasformando la testimonianza giornalistica in un atto di sopravvivenza quotidiana, non in un diritto.