Nei prossimi giorni un giudice federale statunitense potrebbe emettere una sentenza storica destinata a scuotere gli equilibri della Silicon Valley: i contratti di default di Google per la ricerca online.
In gioco ci sono oltre 26 miliardi di dollari l'anno, di cui 20 miliardi finiscono nelle casse di Apple. Una cifra enorme, pari a quasi un quarto degli utili operativi di Alphabet, che da anni paga Apple per restare il motore di ricerca predefinito su iPhone, iPad e Mac.
Il giudice Amit Mehta ha già stabilito che Google detiene un monopolio nella ricerca e nella pubblicità online. Ora sta valutando i rimedi, mentre un secondo processo – questa volta dedicato al business pubblicitario di Google – inizierà il mese prossimo.
Per Google il rischio principale è perdere una quota di traffico garantito. Ma secondo diversi analisti sarà Apple a subire il colpo più duro: senza quei miliardi, i suoi utili ante imposte potrebbero ridursi fino al 7%.
Eppure, alcuni economisti sostengono che Google potrebbe addirittura uscirne rafforzata: liberarsi di contratti costosi, che ormai non spostano più la domanda, significherebbe recuperare margini e reinvestire altrove.
Nonostante i miliardi spesi da Microsoft per Bing (oltre 100 miliardi di dollari), il colosso di Redmond non è mai riuscito a scalfire davvero il dominio di Google.
Durante il processo, Eddy Cue (Apple) è stato chiaro: "Microsoft avrebbe potuto regalarci Bing o l'intera azienda, ma Google resta superiore per qualità e monetizzazione".
Il punto è che, anche quando gli utenti possono scegliere, scelgono comunque Google. In Europa, dove Bruxelles ha imposto un "menu di scelta" per i motori di ricerca, la quota di mercato di Big G è rimasta attorno al 90%.
Secondo alcuni economisti si tratta di un monopolio naturale, dove la scala porta qualità e la qualità rafforza la scala. Il Dipartimento di Giustizia punta a limitare i contratti esclusivi, sperando che ciò apra spazio a nuovi concorrenti. Alcuni giuristi vedono i pagamenti come una sorta di "assicurazione contro l'innovazione", che congela l'ecosistema impedendo a rivali di emergere.
C'è chi spinge per rimedi radicali come la cessione di Chrome, ma molti osservatori ritengono che sarebbero solo mosse sceniche. Le vere partite si giocano altrove: obblighi di condivisione dei dati di ricerca con i concorrenti, e soprattutto nuove regole per evitare che Google ripeta lo stesso schema con l'intelligenza artificiale.
Se il passato è stato dominato dai contratti di distribuzione, il futuro della ricerca si gioca sull'intelligenza artificiale generativa.
Google sta puntando tutto su Gemini, che potrebbe trasformare radicalmente il modo in cui cerchiamo informazioni online. Alcuni analisti ritengono che smettere di versare miliardi ad Apple e reinvestire quei soldi in AI e cloud potrebbe rafforzare ulteriormente la posizione di Google.
Apple, intanto, ha annunciato l'integrazione di ChatGPT nei suoi dispositivi e valuta l'apertura a servizi come Perplexity e Anthropic. Ma i numeri parlano chiaro: Perplexity gestisce 15 milioni di query al giorno, Google oltre 10 miliardi.
La sentenza attesa non metterà fine al dominio di Google, ma potrebbe ridisegnarne i confini. Da un lato, il Dipartimento di Giustizia vuole aprire spazi ai concorrenti; dall'altro, Google sembra pronta a trasformare questa sfida in un'opportunità, liberandosi di costi enormi e spingendo sull'AI.
La vera domanda ora non è se Google resterà leader della ricerca, ma se l'arrivo dell'intelligenza artificiale aprirà finalmente la porta a nuovi sfidanti, o se consoliderà ulteriormente il monopolio di Mountain View.

