I numeri aggiornati sulla percentuale di ricoveri ordinari classificati come DRG ad alto rischio di inappropriatezza non lasciano spazio a interpretazioni consolatorie. La variabilità tra strutture è ampia, persino brutale in alcuni casi, e riguarda sia gli ospedali tradizionali sia quelli universitari. In certi atenei si superano soglie oltre il 21%, un livello che indica con chiarezza quanto il sistema non riesca a garantire un uso omogeneo e razionale del ricovero ordinario.

L’indicatore, definito da Agenas come quota di ricoveri potenzialmente non appropriati su 108 DRG specifici, non è un dettaglio tecnico: misura la capacità della rete ospedaliera di collocare i pazienti nel regime assistenziale corretto. Se il valore sale, significa che troppi casi vengono gestiti con degenze complete quando potrebbero, almeno teoricamente, essere trattati in day hospital, ambulatoriale o percorsi territoriali alternativi.

 
Ospedali non universitari: Brescia e Niguarda al vertice (in negativo)
Tra le strutture non universitarie, i peggiori dati arrivano dagli Spedali Civili di Brescia, che toccano il 20,2%, seguiti a distanza minima dal Niguarda di Milano (20%). In pratica, un ricovero su cinque è catalogato come potenzialmente evitabile. Subito dietro si piazzano:

  • Cardarelli di Napoli: 18%
  • San Gerardo di Monza: 17,1%
  • Brotzu di Cagliari: 16,6%

Nel centro della distribuzione compaiono valori compresi tra il 12 e il 15%: Perugia, Garibaldi di Catania, S. Croce e Carle di Cuneo, San Pio di Benevento, S. Carlo di Potenza.
La parte bassa della classifica racconta invece un’altra Italia, con differenze quasi imbarazzanti: Villa Sofia–Cervello di Palermo si ferma al 6,5%, mentre il Morelli di Reggio Calabria chiude addirittura al 3,3%.

 
Atenei: Vanvitelli prima (21%) e varchi evidenti nel sistema formativo-assistenziale
La fotografia non migliora quando si guarda alle strutture universitarie. La L. Vanvitelli di Napoli guida con un 21% che fa scattare tutti i campanelli d’allarme. Seguono:

  • Umberto I di Roma: 19,1%
  • Città della Salute e della Scienza di Torino: 17,2%
  • Bari: 17,1%
  • Parma: 17%
  • Verona: 16,6%

Nella fascia intermedia (13–15%) sono inclusi poli storicamente solidi come Padova, Milano, Modena e Pavia, insieme a più sedi del Centro-Sud. In chiusura, i valori scendono tra l’8 e l’11%, con Foggia che si attesta sull’8,5%.

 
Cosa rivelano questi numeri (davvero)
L’indicatore viene considerato da anni un termometro della tenuta del sistema territoriale. Quando sale oltre certe soglie, di solito significa:

  • rete territoriale insufficiente o non integrata, che scarica sui reparti casi borderline
  • percorsi diagnostico-terapeutici condivisi poco applicati o del tutto assenti
  • triage e accesso non uniformi
  • logiche organizzative interne incapaci di gestire i flussi senza ricorrere al ricovero

Valori molto bassi, al contrario, possono essere interpretabili come rigore clinico e gestionale, ma anche come risultato di modelli di codifica differenti o interpretazioni locali particolarmente restrittive.

 
Ridurre i ricoveri evitabili non è un esercizio accademico
Sfoltire la quota di ricoveri ordinari inutili non è una questione cosmetica, ma una leva concreta per:

  • liberare risorse
  • evitare degenze non necessarie
  • migliorare l’esperienza dei pazienti
  • alleggerire reparti già saturi
  • ridurre i costi di gestione

I dati non chiedono di essere letti: pretendono una risposta. Se ogni regione continua a muoversi secondo logiche autonome, la “mappa dell’appropriatezza” rimarrà un mosaico disordinato. Serve un confronto reale, continuo e trasparente tra territori, direzioni sanitarie e strutture universitarie, mettendo da parte formalismi e difese corporative.

La variabilità attuale non è più spiegabile solo con differenze epidemiologiche. È una questione organizzativa, culturale e politica. Fino a quando non verrà affrontata con lo stesso rigore con cui vengono monitorati i bilanci sanitari, l’Italia continuerà a ricoverare troppo, male e in modo diseguale.