Un articolo pubblicato su Nature Communications lancia un allarme che non può essere ignorato: l'inverno artico sta cambiando pelle. E non si tratta di un lento declino, ma di un vero e proprio crollo dei parametri climatici che finora consideravamo normali.
A denunciarlo è James Bradley, docente di Scienze Ambientali alla Queen Mary University di Londra, che nel febbraio 2025 ha guidato una spedizione scientifica alle isole Svalbard. Lì, dove il freddo estremo dovrebbe dominare incontrastato, il gruppo ha trovato temperature positive, pioggia e un paesaggio più simile alla primavera che al cuore dell’inverno polare.
“Lo spesso manto nevoso è scomparso in pochi giorni. L’attrezzatura che avevo portato sembrava una reliquia di un altro clima”, racconta Bradley.
Alle Svalbard, il riscaldamento avanza a una velocità allarmante: tra sei e sette volte più rapida rispetto alla media globale. E i dati raccolti nel 2025 lo confermano: le temperature hanno superato frequentemente i 0 °C, un'anomalia che una volta sarebbe stata classificata come "evento estremo", ma che ora diventa la nuova norma.
Le rilevazioni effettuate presso la stazione di Ny-Ålesund mostrano un’impennata delle temperature giornaliere rispetto alle medie storiche di febbraio (1959–2001). E le conseguenze si vedono sul campo: neve assente, acqua che emerge dal sottosuolo, vegetazione che esplode fuori stagione. Il terreno ghiacciato si è trasformato in una tundra umida e fangosa, con laghi temporanei là dove dovrebbero esserci solo lastre di ghiaccio.
Gli scienziati non erano pronti per questo scenario. Equipaggiati per il freddo estremo, si sono ritrovati a lavorare a mani nude sotto la pioggia. L’obiettivo principale – raccogliere neve fresca – è miseramente fallito. Laura Molares Moncayo, dottoranda della Queen Mary University e del Natural History Museum, lo riassume così: “In due settimane, abbiamo visto la neve solo una volta. Il resto del tempo è piovuto.”
E non è solo un problema di campioni mancati. Le condizioni hanno reso l’intera operazione pericolosa: il terreno molle ha ostacolato l’uso delle motoslitte, mentre l’assenza di neve ha aumentato i rischi legati agli orsi polari, normalmente visibili da lontano sulle distese bianche.
Ma la questione non si ferma alle difficoltà logistiche. L'attraversamento della cosiddetta “soglia di fusione” in pieno inverno ha implicazioni molto più gravi. L’attivazione dei cicli microbici nel permafrost porta alla degradazione della materia organica congelata e al rilascio di gas serra come metano e anidride carbonica, aggravando ulteriormente la crisi climatica. È un circolo vizioso: più si scalda, più si scioglie; più si scioglie, più si scalda.
L’effetto visivo è quasi surreale: vegetazione verde in pieno inverno, animali confusi dai cicli stagionali sballati, e un paesaggio che sembra sbucato da aprile anziché da febbraio. L’inverno, nel senso tradizionale del termine, sta scomparendo.
Lo studio invoca un cambio di rotta radicale: servono investimenti immediati per potenziare il monitoraggio del clima artico in inverno, una stagione finora trascurata nella raccolta dati. Più osservazioni e più sperimentazioni sono fondamentali per anticipare disastri e adattare le politiche.
Gli autori propongono di smettere di reagire alle emergenze e iniziare a prevenirle – ponendo l’inverno al centro delle strategie climatiche globali.
Non si tratta più di “previsioni” o “modelli teorici”. L’inverno artico sta letteralmente scomparendo sotto i nostri occhi, e se le Svalbard sono il banco di prova del futuro climatico, allora la diagnosi è semplice: siamo in guai seri.


