Se nel 1990 i sacerdoti erano, infatti, circa 38 mila, oggi non superano i 32 mila. Parallelamente, le nuove ordinazioni nel 2013 erano 436, dieci anni dopo sono diventati appena 323. A pesare c’è anche l’età media del clero, che, nel periodo che va dal 2000 al 2020, ha avuto un incremento del 4,1%, salendo a 62 anni. Basta un semplice calcolo per fare ipotizzare che nel 2040 l’Italia avrà un clero con un’età media che andrà oltre i 70 anni.
«Non è più tempo di un parroco per ogni campanile – commenta un vescovo lombardo– dobbiamo ripensare il modello di comunità».
Il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati condivide l'analisi dei dati di Andrea Filloramo ( www.imgpress.it ) e propone di cambiare i Diritto Canonico immediatamente consentendo nella Chiesa cattolica Romana la riammissione dei preti sposati (dispensati dall'obbligo del celibato e con matrimonio religioso - ndr).
Le diocesi stanno puntando con decisione sulla collaborazione tra preti e laici: catechisti, religiose, diaconi permanenti assumono ruoli un tempo affidati solo ai preti. Papa Francesco ha rilanciato la parola chiave “sinodalità”, invitando a un modello di Chiesa meno centrato sul sacerdote.Sul tavolo resta la questione del celibato, Alcuni ambienti, anche in Italia, spingono per aprire al sacerdozio di uomini sposati, i cosiddetti viri probati, pratica, storicamente presente fino al XII secolo che è stata da allora abbandonata per rafforzare il celibato sacerdotale.La domanda di fondo è se la Chiesa voglia restare ancorata al modello del “prete per ogni campanile” o se sia pronta a immaginare un futuro diverso, corale e partecipato. Non è solo, perciò, una crisi di vocazioni, ma di immaginario ecclesiale. Forse la vera conversione passa dal capire che non basta contare i preti rimasti; bisogna ripensare il volto stesso delle comunità cristiane, il ruolo del presbitero in una visione non clericale, che guida la comunità cristiana, non come un capo o un funzionario, ma come un fratello e amico tra i fratelli. Questa prospettiva sottolinea la sua funzione di servizio e la sua relazione di comunione con gli altri membri della Chiesa, piuttosto che la sua posizione gerarchica.Non è più il tempo, quindi, del parroco che confessa e celebra o organizza novene e feste patronali. Questo modello appartiene ormai al passato. Occorre comprendere che non solo è la “fabbrica delle vocazioni” a essersi inceppata: è la stessa società a non volere più preti come erano nel passato. La vera questione, forse, non è quanti preti restano, ma quale immagine di Chiesa si vuole costruire, che deve essere non clericale ma più partecipata, capace di ridistribuire responsabilità e ministeri.Da tenere presente, perciò, che la crisi dei sacerdoti è solo il sintomo di una crisi più vasta, quella del legame tra Chiesa e società. E’ dentro questo scenario, in cui si apre un’opportunità: immaginare comunità più autentiche, dove il prete non sia l’unico perno, ma il fratello maggiore che guida un cammino condiviso. Forse la domanda vera non è, quindi, “quanti preti mancano?”, ma “che cosa manca davvero alle comunità per essere tali”.


