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Giorgia Meloni si esalta per il pagamento dell’ottava rata del PNRR... ma non c'è nulla da festeggiare

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è lo strumento con cui l'Italia utilizza i fondi di Next Generation EU, per una somma che si avvicina ai 195 miliardi di euro destinati alla ripresa post-pandemia e alla modernizzazione del Paese.

Al 31 maggio 2025 risultano spesi circa 79 miliardi di euro, che corrispondono a oltre il 40% dei circa 195 miliardi complessivi del PNRR. A fine 2024 la spesa si attestava intorno ai 64 miliardi (circa il 33% del totale), dei circa 299mila progetti registrati, 125mila erano quelli già conclusi, 174 mila erano ancora in corso. 

Nonostante una parte consistente di misure e interventi siano "assegnati" o "attivati", la spesa effettiva rimane ben più bassa: ad esempio, secondo un'analisi di fine 2024 risultavano spesi poco più di 58,6 miliardi sul totale dei soldi assegnati.

In molti settori strategici la spesa realizzata è ben inferiore al 50%. Nel comparto "ricerca e innovazione", ad esempio, al 3 novembre 2025 risulta speso solo il 44% degli 8,5 miliardi stanziati. 

Le opere pubbliche — infrastrutture, grandi progetti, ambiente — sembrano andare più lente di interventi "meno visibili" come incentivi, assunzioni, servizi. Alcune fonti segnalano che la spesa per opere strutturali rappresenti meno del 5% del totale speso a oggi. 

Riassumendo, in base agli ultimi dati...

Il PNRR è in scadenza per la fine di giugno 2026.  Al 5 novembre 2025 risulta che l'85% dei fondi (circa 164–165 miliardi) siano assegnati o destinati a interventi, ma solo il 30-31% è stato speso. Ciò significa che restano da spendere oltre 130 miliardi. Per farlo, servirebbe un ritmo di spesa quasi triplo rispetto a quello del 2024. 

A sottolinearlo è un nuovo studio di ReportAziende.it, basato sui dati della Corte dei Conti aggiornati al 30 settembre 2024 e proiettati sulle scadenze 2025–2026. La situazione mette in evidenza un problema cronico: il divario tra fondi disponibili e capacità reale di trasformarli in progetti concreti.

Le disparità sono marcate. Più del 60% dei fondi destinati alle imprese è concentrato nel Nord, il 25% al Centro e appena il 15% nel Mezzogiorno. Secondo ReportAziende, il PNRR avrebbe dovuto fare da motore di coesione, ma la realtà continua a raccontare un Paese a velocità diverse. Il nodo non è la mancanza di risorse, ma la debolezza amministrativa dei territori: carenza di tecnici, assistenza insufficiente, strumenti digitali inadeguati. In molti casi i progetti rallentano non per assenza di fondi, ma per incapacità di gestirli.

Un'eccezione esiste, ed è significativa. Nel credito d'imposta Formazione 4.0, cioè l'incentivo alle aziende che investono nelle competenze dei dipendenti, le regioni del Sud guidano la classifica con il 46% delle imprese beneficiarie.
Quando una misura è semplice, accessibile e con procedure meno tortuose, la risposta arriva subito. È la conferma che un PNRR più "usabile" ridurrebbe rapidamente i divari territoriali.

Il problema della concentrazione è evidente. Le prime 100 aziende beneficiarie gestiscono da sole circa 44 miliardi di euro, e quasi il 70% dei principali destinatari sono enti pubblici o società partecipate. Per le piccole e medie imprese la realtà è molto diversa. Secondo la Corte dei Conti Europea, solo il 30,7% dei fondi europei risulta davvero accessibile o utilizzato dalle Pmi italiane. Il resto rimane bloccato da:

  • procedure complesse,
  • errori nella compilazione delle domande,
  • problemi di rendicontazione,
  • scarsa informazione sul funzionamento delle misure.

Le Pmi finiscono ai margini di un sistema pensato male per la loro capacità operativa.

C'è un altro elemento critico: i tempi medi di verifica dei rendiconti sfiorano i 73 giorni. Una lentezza che genera tensioni di liquidità soprattutto per le imprese più piccole. Le grandi aziende riescono a sopportare la distanza tra lavori completati e rimborsi, le Pmi no: spesso sono costrette a ricorrere al credito bancario per coprire i flussi di cassa. Il risultato è un paradosso: interventi conclusi, ma pagamenti fermi. E centinaia di fornitori e subappaltatori che rischiano di rimanere schiacciati.

La conclusione di ReportAziende è netta: senza procedure snelle e rimborsi rapidi, la spinta economica del PNRR rischia di trasformarsi nell'opposto, diventando un fattore di instabilità finanziaria per il tessuto produttivo minore. La sfida non è più assegnare le risorse, ma spendere quelle esistenti, in modo trasparente e senza paludi burocratiche. La prospettiva è chiara: o il paese accelera e rende operativi i progetti, o una parte consistente dei fondi rischia di rimanere sulla carta.


Perché ricordare lo stato dell'arte relativo al PNRR? Perché oggi una allucinata Giorgia Meloni ha rilasciato questa allucinante dichiarazione:

"L'approvazione da parte della Commissione europea del pagamento dell'ottava rata del PNRR, pari a 12,8 miliardi di euro, conferma che siamo in testa nell'attuazione del Piano, con il conseguimento dei trentadue obiettivi previsti, in linea con i cronoprogrammi concordati a livello europeo.Abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi previsti, un risultato riconosciuto a livello europeo che dimostra la solidità del nostro impegno. Il Governo intende sfruttare questa occasione per realizzare cambiamenti strutturali duraturi: investiremo in riforme strategiche per rendere l'Italia più competitiva e capace di affrontare le sfide attuali.Proseguiremo su questa strada, con serietà e concretezza, attuando tutte le riforme e gli investimenti strategici necessari per il benessere della nostra Nazione e dei cittadini. Per un'Italia sempre più credibile e più forte".

Se ci si limitasse ai comunicati ufficiali, sembrerebbe che l'Italia stia correndo come un treno. Peccato che la realtà dei numeri dipinga tutt'altro scenario.
Che l'Europa approvi il pagamento di una rata non significa essere "in testa" nell'attuazione del PNRR: significa solo aver spuntato 32 caselle burocratiche, spesso lontane anni luce dalla realizzazione concreta dei progetti. Gli obiettivi formali non sono le opere finite, e questa confusione la stiamo pagando cara.

Perché mentre si festeggia l'ennesima rata, il vero dato resta quello ignorato: solo il 30% dei fondi è stato effettivamente speso. Più di 135 miliardi sono ancora lì, immobili, da erogare in meno di un anno e mezzo. Non esattamente l'immagine di un Paese "in testa".

E che dire della "solidità dell'impegno"? Le verifiche dei rendiconti richiedono in media 73 giorni, le Pmi soffocano nell'attesa dei rimborsi, il Sud riceve appena il 15% delle risorse destinate alle imprese e le prime 100 aziende si dividono 44 miliardi. Se questo è essere un modello europeo, c'è da chiedersi quale sia il parametro.

Il punto è semplice: finché non si passa dalle risorse assegnate ai lavori completati, ogni proclama resta fumo, propaganda da due soldi di cui solo "presentatori" del calibro di Bruno Vespa possono spacciare per ottime notizie. E il tempo, ormai, è quasi finito.

Autore Mario Falorni
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