L'opera del sacerdote palermitano, beatificato di recente, si fondava sulla condanna radicale delle organizzazioni criminali come male non solo spirituale ma anche sociale. Invitava alla conversione e allontanava i mafiosi dalla comunità di fedeli, anche attraverso l’interdizione dai sacramenti nei casi più gravi, come espressamente affermato e voluto da Papa Francesco.

La sua azione si incentrava fortemente sull'educazione alla legalità, la sensibilizzazione delle coscienze, il supporto alle vittime, la sottrazione dei simboli religiosi dal controllo mafioso e un'azione culturale premonitrice per sradicare il male e promuovere i valori di verità, giustizia e libertà. Figura assumibile a quella di don Giuseppe Diana, oggi rappresenta, sempre più spesso, una rara eccezione in un mare di silenzio e ignavia.

La Chiesa, a mio parere, si impegna ancora troppo poco per far comprendere alle persone che le mafie sono un male e a formare cittadini consapevoli e liberi. Potrebbe fare molto di più.

Negli oratori, nelle associazioni cattoliche, nel catechismo c’è un fievolissimo ricordo delle vittime di mafia e del dolore delle loro famiglie. Non vedo una Chiesa che lavori alacremente per tagliare le radici di connivenza e corruzione, liberando i simboli religiosi dal controllo mafioso. Il rapporto tra Chiesa e mafia è molto complesso e a volte, purtroppo, ambiguo, per cui, mi auguro che figure quali quelle di don Pino e don Peppe rendano sempre più consapevole del pericolo mafioso la Chiesa, conducendola verso posizioni più chiare e radicali.  

A mio giudizio l'impegno della Chiesa non può ridursi solo ad una questione religiosa e morale. Deve assolutamente diventare un movimento culturale che miri a risvegliare le coscienze, promuovere la libertà e contrastare il compromesso morale e l'indifferenza tanto anelati da Paolo Borsellino verso la gioventù.